Il romanzo storico e il fantasy di ambientazione medievale hanno spesso trasformato in personaggi letterari figure chiave del Medioevo, conferendo a queste personalità un’aurea leggendaria che altrimenti probabilmente non avrebbero avuto. Tra queste figure un posto di primo piano è spesso stato riservato agli inquisitori. Basti pensare ad esempio alla saga fantasy sull’inquisitore Nicolas Eymerich di Valerio Evangelisti o al frate domenicano Bernardo Gui, figura di spicco de “Il Nome della rosa” di Umberto Eco, in questi giorni tornato alla ribalta grazie alla serie televisiva targata Rai.
A mio modo di vedere per comprendere al meglio il romanzo di Eco è quanto mai opportuno leggere “Il manuale dell’inquisitore” di Bernardo Gui – il titolo originale è Practica Officii Inquisitionis Hereticae Pravitatis (parte V) – tradotto dal latino da Michela Torbidoni e pubblicato recentemente per la prima volta in italiano dalla Newton Compton Editori. In quest’opera l’inquisitore di Limoges analizza le principali sette religiose tacciate di eresia dalla Chiesa dell’epoca e che ritroviamo, perlomeno alcune, anche nel Nome della rosa. Le sette analizzate nel dettaglio sono i manichei (in pratica i catari), valdesi, pseudo-apostoli, beghini, giudei e gli indovini e invocatori di demoni. Dalla lettura dell’opera di Gui apprendiamo certamente una scarsa tolleranza verso i dissenzienti alla Chiesa costituita, ma anche un acceso dibattito spirituale sull’uomo e sull’anima.
“Il manuale dell’inquisitore” è a mio parere un importante documento storico per comprendere un aspetto buio della storia dell’umanità. Scritto tra il 1316 e il 1321 – qualche anno prima rispetto all’apparizione di Gui nel monastero medievale del Nord Italia che fa sfondo al romanzo di Eco – il manuale dell’inquisitore riempì all’epoca un grave vuoto legislativo. Prima di Gui c’erano soltanto bolle papali miranti a incentivare i processi dell’Inquisizione, come ad esempio l’Ad abolendam di Lucio III del 1184, o ad accordare agli inquisitori l’utilizzo della tortura per estorcere le confessioni degli eretici, come è il caso dell’Ad extirpanda di Innocenzo IV del 1252; tuttavia non c’era alcuna norma, come afferma Marcello Simoni nell’introduzione storica al Manuale, che facesse una distinzione “tra la procedura criminale ordinale e quella rivolta alla condanna del crimen heresiae”.
L’opera di Gui ha avuto all’epoca il merito di porre un ordine a questo caos legislativo, riunendo in tal modo teoria e prassi. Come ha notato lo storico del cristianesimo Grado Giovanni Merlo, citato da Simoni nella sua Introduzione, “l’efficace operare dell’inquisitore non può fare a meno di trovare legittimazione e legittimità sul piano teologico, ecclesiologico e giuridico”. Il manuale dell’inquisitore è la quinta e ultima parte della Practica inquisitionis del frate domenicano e si caratterizza per essere un breve trattato sulle sette ereticali diffuse tra il Sud della Francia (Tolosa, Narbona e la Provenza in particolare) e l’Italia settentrionale e un appendice sui modelli d’interrogatorio e le forme di abiura.
Le sette che Bernardo Gui approfondisce maggiormente e su cui si scaglia la sua ira sono i valdesi, i pseudo-apostoli e i beghini. Penso perché fossero le sette ereticali più diffuse nell’area in cui lui operava come inquisitore e che considerava maggiormente pericolose, in quanto miravano a minare le fondamenta del papato che in quel momento si trovava insediato ad Avignone e si caratterizzavano, rispetto alle altre confessioni, per la maggior “scaltrezza volpina”, ambiguità e malizia nelle argomentazioni, che potevano trarre in inganno anche l’inquisitore più erudito e arguto. Inoltre bisogna considerare anche che i catari – da Gui definiti anche manichei – di fatto non costituivano più una vera minaccia né per la Chiesa né per la Francia dei Capetingi, dal momento che con la caduta di Montségur del 1244 e con la morte di Raimondo VII Saint-Gilles, avvenuta il 27 settembre 1249, si ha la fine del catarismo e dell’indipendenza della Contea di Tolosa (già di fatto sancita con il trattato del Giovedì Santo del 12 aprile 1229, concepito e realizzato dalla reggente Bianca di Castiglia, con il quale Raimondo VII dovette sottomettersi, scalzo e in camicia, alla dinastia Capetingia e dare in sposa la figlia a uno degli eredi di Luigi VIII) con la conseguente annessione al regno di Francia.
Per quanto riguarda le restanti sette, l’opera di Gui costituisce una testimonianza dell’antisemitismo presente nella società europea medievale e il disprezzo più totale che gli ecclesiastici provavano per gli ebrei convertiti al cristianesimo che poi sono ritornati al giudaismo. Infine, seppur poco approfondito, nella sua critica agli “indovini e invocatori di demoni” il celebre inquisitore fornisce anche una descrizione dei culti pagani (in particolare il culto delle fate), delle fatture e delle superstizioni popolari presenti in Europa nel XIV secolo. Per ogni setta Bernardo Gui prevede domande differenti da rivolgere all’accusato per poter arrivare ad estorcere la piena confessione e l’abiura. Inoltre bisogna variare la disposizione delle domande di volta in volta per non farsi gabbare dal presunto eretico e inserire nel documento processuale soltanto le domande e le relative risposte che meglio evidenziano l’eresia in esame. Dalla lettura de “Il manuale dell’inquisitore” possiamo infine evincere come la reputazione di Gui di inquisitore inflessibile non fosse esagerata. Nel corso della sua carriera il frate domenicano emise, come evidenzia Simoni nell’introduzione sopramenzionata, “938 sentenze di condanne individuali e 45 condanne a morte, riguardanti soprattutto il Sud della Francia e pronunciate per la maggior parte a Tolosa, sotto le arcate della cattedrale di Saint-Étienne”.
In conclusione “Il manuale dell’inquisitore” è un opera a mio parere imprescindibile per chi vuole approfondire il Medioevo e leggere “Il nome della rosa” di Umberto Eco a un livello più profondo.
Roberto Cavallaro
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