Da gennaio 2019 l’Art Gallery Fadibè, in via Geraci 27 a Messina inizia la collaborazione con la Storica e Critica d’Arte Mariateresa Zagone che curerà BODIES & FACES, un evento articolato su tre mostre personali che vuole porre l’accento sulla figuratività con un taglio non tradizionale. I tre artisti che si avvicenderanno a partire da venerdì 18 gennaio sono affermati in un panorama artistico di qualità e di respiro nazionale oltre che, in taluni casi, di ricerca sperimentale. La rassegna vuole rappresentare l’inizio di un dialogo fra la città e i nuovi scenari dell’arte contemporanea siciliana e italiana.
Il primo artista sarà Giuseppe Pizzardi, in mostra dal 18 gennaio al 17 febbraio 2019
“Molte delle mostre che ho visto recentemente in Sicilia e in Italia – dichiara Mariateresa Zagone, curatrice e ideatrice - dimenticano il racconto della scelta curatoriale, cioè il come e il perché del progetto espositivo. Troppe mostre sono pensate come eventi mediatici e commerciali per le quali viene scelto un titolo che includa nomi di artisti conosciuti da tutti e su di esso si confeziona la mostra, “su misura” delle aspettative del pubblico (il criterio vale purtroppo sia per le mostre”istituzionali” di arte antica e moderna, che per collettive di giovani artisti in Gallerie più o meno di grido), il tutto senza seguire particolari criteri scientifici o filologici.
Per questo motivo – prosegue la Zagone - per evitare che la rassegna e le mostre che include diventino motivo di svago, seppur falsamente percepito come “culturale”, credo necessario esporre il criterio metodologico di BODIES & FACES, da me voluta e curata. Esso, in breve, consiste nella volontà di indagare un’arte figurativa “di ritorno”, sperimentale e non oleografica. Aprire un varco sul linguaggio di tre artisti (due siciliani, una pugliese) permettendone il dialogo col contesto artistico messinese, tre artisti che hanno fatto dell’arte figurativa, delle inquietudini di un corpo o di un volto, il loro campo di ricerca. L’arte non può seguire uno sviluppo darwiniano, assomiglia piuttosto ad un’evoluzione punteggiata, per scarti e scatti. All’arte non sono sufficienti la corsa verso il tecnologico, la ricerca dell’ultimo ritrovato tecnico. La nostra posmodernità ha accantonato il modello estetico modernista fondato sul perpetuo rinnovarsi dei linguaggi.”
Giuseppe Pizzardi: Corpi nudi leggibili in maniera ambivalente, dicotomica, fra bellezza e fragilità. Corpi a cui Pizzardi, pittore che conosce il mestiere, ritorna consapevolmente negli anni fra il 2001 e il 2015, dopo un radicale abbandono richiesto dal mercato, dal gusto, dall’Accademia, dalla Milano antipassatista degli anni ‘80, dal motore che macinava novità prima che, alle soglie del XXI secolo ci si fermasse un attimo a guardarsi, ci si perdesse nell’eclettismo postmediale privo, finalmente, di dogmi. Un recupero faticoso e affascinante di proporzioni e di armonia, una pulizia interiore prima che di pennello con la quale l’artista passeggia agevolmente nelle regioni di un antropocentrismo che, alle nostre latitudini, ha perfino modellato un Dio che si incarna – sublime paradosso di un particolare monoteismo - potenza culturale di un intero ecumene plasmato dall’Ellade intorno all’idea e al suo fenomeno carnale di άνθρωπος. Un recupero, anche, ancestrale in cui pariteticamente si fronteggiano corpi maschili e femminili che richiamano il mito ritornando all’origine, segnando l’inizio del pluriennale percorso oggetto di questa mostra. Le prime tele che, per comodità di formato, sono state allestite nel secondo ambiente della galleria, mostrano colori accesi e quasi acidi che ricalcano lessemi classici organizzati in una sintassi anticlassica, come fredde fiammate ci turbano e al contempo ci allontanano dalla riflessione in quanto rendono i nostri sensi partecipi sollecitandoli più del pensiero (ecco la vampata giallo/rosa che costruisce la figura di Elena, o l’azzurro polvere opacizzato dal tempo come un encausto pompeiano su cui è ritagliata la figura di Antinoo). Man mano che ci si avvicina a periodi più recenti i corpi mostrano l’ingannevole territorio della bellezza caduca, della sua vulnerabilità ma anche dell’offesa corporale, del peccato, del sacrificio. Sono composizioni calcolatissime, superbe finzioni sceniche tratte da fotografie con costanti riferimenti alla grande pittura figurativa del passato in cui la luce gioca lo stesso ruolo salvifico di Caravaggio, di De Ribera, di Stomer, in cui le ombre si condensano in sudore e sgomento del materiale epidermico che Pizzardi crea come fosse un demiurgo; col piacere, con la responsabilità di una vera e propria creazione. Corpi amati, agognati, costruiti e accarezzati sulle tele pennellata dopo pennellata, velatura dopo velatura, manipolati amorevolmente ma che consapevolmente impauriscono l’artista per la loro fragilità, per il labile confine che separa ciò dalla manipolazione sadica altrettanto piacevole. Più volte nelle nostre discussioni Pizzardi richiamava l’esperimento della Abramovic, la consapevolezza terrifica di quel meccanismo per il quale il singolo abdica all’individualità che si liquefà osmoticamente in un gruppo unitario ed omogeneo, e che agisce delegando ad esso la responsabilità di un qualsiasi atto. Dinamiche complesse che sottendono studi psicologici e sociologici ma che, anche nell’arte, hanno mostrato fino a dove possa essere spostato il limite del godimento nell’esercizio del dominio su un corpo indifeso. (Mariateresa Zagone)