J.R.R. Tolkien - Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm

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"Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm" è uno scritto di Tolkien a metà strada tra il saggio breve e l’opera letteraria, incentrato sul poema epico anglosassone La battaglia di Maldon, di autore anonimo, che narra la celebre battaglia del 991 d.C. che ha visto affrontarsi in uno scontro campale l’esercito sassone di Beorhtnoth o Byrhtnoth, conte di Essex e vassallo di re Ethelred II, contro le schiere vichinghe o danesi, capitanate “secondo una versione della Cronaca Anglosassone, da Anlaf, famoso nelle saghe e nella storia di Norvegia come Olaf Tryggvason, più tardi re di Norvegia”, conclusosi con la disfatta dei sassoni.

Il poema, giunto a noi privo di inizio e fine poiché è andato perduto il foglio esterno, narra le gesta di Beorhtnoth e dei suoi uomini; di come l’orgoglio del conte si sia piegato all’astuzia degli invasori, permettendogli di guadare il fiume Pante (oggi Blackwater), privarsi del vantaggio tattico e concedere in tal modo una vittoria che poteva essere evitata.

La lettura di questo poema anglosassone mi ha riportato alla mente la “Saga di Ragnar”. Anche qui si ha una sottovalutazione del nemico da parte degli anglosassoni. Mi riferisco precisamente al capitolo che tratta dell’uccisione di re Ella, signore della Northumbria, per mano di Ívarr e degli altri figli di Ragnar i quali, rivendicando la morte del padre, utilizzano l’astuzia per conquistare parte dell’Inghilterra. Nel racconto norreno Ella decide di concedere un pezzo di terra a Ívarr e al suo esercito in cambio della pace. Questa concessione però si rivelerà fatale perché, dopo aver fondato York e consolidato i propri territori, Ívarr chiama a rinforzo i fratelli e i rispettivi eserciti con il risultato che per Ella non ci sarà alcuno scampo. Da questo errore continuo di strategia militare si potrebbe ipotizzare che gli anglo-sassoni erano molto valorosi ma poco astuti; e forse non sarà un caso se poi i Normanni di Guglielmo il Conquistatore li hanno conquistati.          

Tornando allo scritto di Tolkien,  “Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm” è stato pubblicato sulla rivista accademica “Essays and Studies” nel 1953 ed è composto da “La morte di Beorhtnoth” (un’introduzione al poema successivo), “Il ritorno di Beorhtnoth” (poema drammatico in versi allitterativi in cui lo scrittore ipotizza una conclusione per “La battaglia di Mandon” ma allo stesso tempo espone la propria concezione artistica) e un saggio breve conclusivo dal titolo “Ofermod”, un approfondimento del “soverchiante orgoglio” di cui è vittima il  protagonista del poema.          

Nel saggio breve Tolkien mette sotto accusa l’interpretazione di E.V. Gordon, che curò la traduzione inglese del poema nel 1966, secondo cui il poeta anonimo abbia voluto esaltare “lo spirito eroico nordico”, che si esprime – come nota Tom Shippey nel saggio monografico “Tolkien e Il ritorno di Beorhtnoth” pubblicato in appendice al testo di Tolkien - nel “dovere di non sopravvivere alla morte del proprio signore” da parte dei vassalli, sancito dall’invocazione di Byrthwold al sacrificio nei versi “L’animo sia tanto più fermo, il cuore più audace, / il coraggio tanto maggiore, quanto più diminuiscono le nostre forze” – rispettivamente il 312 e il 313 – che esprimono le virtù eroiche della cultura sassone.

Per Tolkien invece il nucleo centrale del poema risiede nei versi 89 e 90, in cui si afferma: “Allora il Conte, mosso dall’orgoglio, / concesse fin troppo terreno a quel popolo odioso”. In questo passaggio c’è una critica ai valori cavallereschi della letteratura medievale, poiché Beorhtnoth vuole dimostrare di essere all’altezza della sua fama e vede una possibilità di accrescere la propria gloria. In realtà, fa notare l’autore de Il Signore degli Anelli, l’eroe non fa altro che esporre i propri uomini a un pericolo che avrebbe potuto essere evitato. La follia del Conte di Essex spacca l’esercito in due al momento della sua morte. I figli di Odda - tra cui un certo Godric verso il quale si era dimostrato generoso in passato donandogli molti cavalli e che dimostra il suo attaccamento rubando il destriero del suo signore – disertano il campo di battaglia portandosi appresso parte dell’esercito; mentre il suo heorðwerod (casato) si sacrifica inutilmente in nome de “l’eroismo dell’obbedienza e dell’amore […] il più eroico e il più commovente”. Tra gli eroi dello “spirito nordico” c’è un altro Godric, che il poeta ci tiene a distinguere dall’altro per sottolinearne il coraggio e la lealtà al suo signore fino alla morte.

Al contrario di quanto si possa pensare, in Tolkien non c’è alcuna nostalgia per il mondo eroico della letteratura medievale. Temendo che Il Signore degli Anelli venisse interpretato come un romanzo pagano e pangermanista, Tolkien avvertì la necessità di scrivere il poema drammatico Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm per esporre la propria concezione della letteratura e della società. Nel poema si ha una rappresentazione del mondo fantastico e di quello reale, rappresentati dalla coppia-tragicomica Torhthelm e Tídwald. Torhthelm, detto Totta, è un giovane aspirante menestrello appassionato di Beowulf e di altri poemi epici antichi, che esalta i caduti sassoni e disprezza i disertori. Tídwald, detto Tída, è un vecchio agricoltore che da giovane è stato un cavaliere e sa cosa significa combattere una guerra. I due devono recuperare il copro di Beorhtnoth e portarlo al monastero di Ely, di cui in vita ne era stato il protettore, per la sepoltura. I due incarnano due concezioni diverse dell’eroismo. Torhthelm è talmente infatuato dalla poesia epica che vede ombre e troll dappertutto, esalta la morte di Beorhtnoth e ne utilizza la spada dall’elsa dorata per uccidere un brigante inglese che ha confuso per un vichingo. Tídwald invece rappresenta il mondo reale ed espone la concezione dell’epica eroica dell’autore. Per Tolkien il signore dell’Essex, come già affermato in precedenza, si è lasciato andare all’orgoglio per diventare oggetto “di canti possenti”. Il suo eroismo è stato sterile, poiché la sua scelta ha reso impossibile la vittoria e ha concesso all’invasore, non solo la gloria delle armi, ma anche l’invasione del paese, rendendo così vano il sacrificio eroico dei suoi guerrieri.

Attraverso Tídwald l’autore sembra tornare indietro alla propria esperienza di guerra come sottotenente durante la Prima Guerra Mondiale e, temendo la vittoria dei nemici, condanna con vigore le nuove correnti pagane e il pangermanesimo che vede incarnarsi nel nazismo di Hitler. Al sogno di Torhthelm, che termina con i versi “Non ceda la mente, moral non vacilli, / se pur fato giunga e infin buio vinca”, Tídwald risponde “Ma strane parole, / o Torhthelm, dicevi, con tutto quel vento, / il fato che vince e il buio che giunge. / Suonava ominoso, di cuore maligno, / e pure pagano: a me non sta bene”.

Da tutto ciò emerge come il pensiero di Tolkien sia spesso stato travisato. Egli non era né un nostalgico dell’eroismo pagano medievale né un sostenitore dei fascismi. Anzi lui proprio detestava “quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler”, come afferma nella lettera n. 45 delle “Lettere 1914-1973” pubblicate nel 2017 da Bompiani, e uno dei motivi per cui più lo disprezzava era perché aveva “rovinato, pervertito, abusato e reso per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e provato a presentare nella sua vera luce”.

Tolkien rivendica un nuovo epos eroico; un “eroismo responsabile” che troverà le proprie incarnazioni in personaggi del Signore deli Anelli come Aragorn, Théoden e Sam Gamgee privi di orgoglio, desiderio di potere assoluto e nostalgia del passato – rappresentato nel romanzo dalla civiltà elfica - ma, invece, capaci di unire l’amore per il proprio popolo e la responsabilità nei confronti di esso alla tolleranza e alla fratellanza fra tutti i popoli della Terra di Mezzo.

Roberto Cavallaro