“Dedico alla insipienza ed alla inettezza del Governo italiano tutto l’odio mio; ed al generale Mazza, gli scatti impetuosi di una eterna maledizione. Da lui all’ultimo della sua stirpe sciagurata, passi sempre severa, sempre tremenda l’eco disperata dell’ultima parola dei miei fratelli di sventura, sepolti sotto le rovine di una illustre città. Al suo cuore ritratto singolare del cuore di Giolitti, dedico a perenne supplizio il gemito straziante, e l’agonia lenta di centinaia e centinaia di feriti, lasciati a morire sulla banchina del porto; e possano le inulte ombre di tanti assassinati tormentare senza posa i suoi sonni. Ai diecimila uomini di truppa, venuti in mezzo a noi in pieno assetto di guerra, e per costituire il vero disastro – giacchè il 28 dicembre 1908 rispetto a loro, non fu che un solo momento di sventura – io dedico il ricordo vergognoso della loro opera vandalica: Ed a molti ufficiali di quei reggimenti, ch’ebbero la sorte di partecipare alla nefasta campagna, dedico la rampogna dei superstiti messinesi…la rampogna nostra…la rampogna mia….che nei giorni del lutto, della strage, del sangue, del fuoco e della morte, tra la immane catastrofe e gli ufficiali italiani, non ho saputo distinguere da quale delle due parti, venisse il maggiore danno”.
Così scriveva nella dedica ed introduzione al suo libro “Un duplice flagello. Il terremoto del 28 dicembre 1908 in Messina ed il Governo Italiano”, stampato nel 1911, Giacomo Longo fu Francesco (così teneva a firmarsi). Un grave atto di accusa di un testimone oculare, un grido esasperato d’ira e di dolore contro l’inefficienza, le colpevoli omissioni, l’indifferenza , l’ignavia, la prepotenza del Governo centrale di Roma all’indomani del terremoto che scientemente portarono all’annullamento, non solo fisico, di un’intera città. Al punto che dei “due flagelli”, il sisma e la vessazione, quest’ultima figlia della disorganizzazione e dell’apparato burocratico elefantiaco piemontese sintetizzato dagli atteggiamenti non certo umanitari del generale Francesco Mazza che decretò lo stato d’assedio, non è facile dire quale fu il più disastroso. Fu una vera fortuna che tra gli scampati vi fossero anche i deputati Ludovico Fulci e Giuseppe De Felice, che insieme ad alcuni sopravvissuti componenti della deputazione provinciale gettarono le basi per la ricostruzione di Messina. Il 7 gennaio del 1909, infatti, in una fredda mattina con un pallido sole, sotto la tettoia della stazione ferroviaria fu redatto e sottoscritto un ordine del giorno. Più che un formale documento, era un atto d’amore per la sfortunata città ed al tempo stesso una ferma opposizione a quanto aveva detto l’onorevole Napoleone Colajanni: “La bella città eroica è morta per sempre. Non si può pensare a riedificarla. Per sgombrare le macerie occorrerebbero quasi tanti milioni, quanti ne sarebbero necessari per ricostruire gli edifici. E ciò non è possibile. Messina resterà solo come testa di linea ferroviaria per le comunicazioni nel Continente. Vano è pensare diversamente. Io questo dirò alla Camera”.
L’ordine del giorno, al contrario, ribadiva con tono solenne da proclama: “I cittadini di Messina scampati all’immane disastro e qui presenti, nonché i consiglieri provinciali superstiti, il sen. Durante, gli on. Pantano, Faranda, De Felice, Micheli, Orlando, Caciani, Buccelli, Fulci Ludovico, riuniti sulle rovine della città, incoraggiati dalle universali e commoventi prove di solidarietà umana,affermano essere un dovere storico e nazionale il risorgimento di Messina”.
E Messina risorse, purtroppo a spese di quanto era stato risparmiato dal sisma (ed era tanto): palazzi, chiese, strutture fortificate furono oggetto di cieca, metodica e sistematica demolizione. Già all’indomani del disastro il Soprintendente dei Monumenti, Musei e Gallerie di Palermo Antonino Salinas, nonostante l’età prossima ai settanta anni, si recò immediatamente a Messina per seguire di persona, affiancato dall’Ispettore Onorario Gaetano Mario Colomba, le delicate e difficili operazioni di recupero delle opere d’arte scampate al sisma. Lo stesso Salinas, con profonda amarezza, ebbe a scrivere nel 1915: “Alla soddisfazione di aver potuto salvare qualche pregevole fabbrica come il tempietto cinquecentesco di San Tommaso, fa doloroso riscontro l’amara delusione della perdita di tanti belli avanzi che le nostre cure non giovarono a proteggere dalla mania demolitrice sorretta da brutti tornaconti commerciali: alludo principalmente ai belli archi di Via Pianellari e all’interno medioevale di una casa che un giorno trovammo distrutti all’insaputa di tutti. E qui alle gesta dei demolitori dovrei far seguire quelle dei ladri volgari e dei macchinatori di furti artistici. Ma di questa piaga che imperversò a Messina e che vi domina ancora in modo inconcepibilmente spudorato, tratterò in altro posto”.
Fra le chiese distrutte col piccone e la dinamite nonostante fossero intatte o perfettamente recuperabili, si ricordano Sant’Agata dei Minoriti (sec. XVII) in piazza Duomo; Sant’Andrea Avellino (sec. XVIII-1851) sul Corso Cavour accanto alla Villa Mazzini; Anime del Purgatorio (sec. XVII-XVIII) dirimpetto alla chiesa dei Catalani; Santa Barbara (sec. XV-XVIII) ai piedi del Tirone; Santa Caterina Valverde (sec. XV) nello stesso sito di oggi e Santa Chiara (sec. XIX) dove oggi sorge il Palazzo della Cultura. E ancora: Santi Cosma e Damiano (sec. XVIII) in via Peculio Frumentario; San Cristoforo (sec. XVII); San Gioacchino (sec. XVII) in via Romagnosi; Santa Maria di Basicò (sec. XIV) all’inizio della Rampa della Colomba; Santa Maria della Luce (sec. XVII) dirimpetto all’attuale Intendenza di Finanza; Santa Maria Maddalena di Valle Giosafat (sec. XI-1765) dove oggi sorge la Casa dello Studente; Sant’Orsola (sec. XVII) nello stesso sito di oggi; Santa Pelagia (sec. XV-XVII) nell’attuale omonima via; Oratorio della Sanità (sec. XVII) in Corso Cavour e Santa Teresa (1750-1772) dove oggi sorge la Cattedrale dell’Archimandritato del SS. Salvatore e l’Istituto Savio. Un elenco, questo, sintetico e non certo esaustivo, che non considera le decine e decine di palazzi monumentali risparmiati dal terremoto e cinicamente sacrificati sull’altare della speculazione edilizia di chi preferì distruggere per approfittare delle somme ingenti messe a disposizione dei palazzinari dell’epoca. Tuttavia sufficiente per smetterla, una volta e per sempre, di ripetere che il terremoto del 1908 rase completamente al suolo Messina. La verità e che il sisma distrusse solo il 40 per cento degli edifici. Al restante 60 per cento ci pensarono speculatori senza scrupoli venuti da fuori ed un governo complice.
Nino Principato