Una visione brutale e netta, fuori dalla consueta iconografia dell’artista. Un teschio su sfondo rosso dentro cui penetra il tubicino scuro di una siringa, fino al centro della scatola cranica. I tocchi di colore che sottolineano le varie aree del cervello ingentiliscono l’immagine dalla forza elementare e primitiva.
Il dramma è potente, una superfice purpurea senza fuga. L’astrazione del processo diagnostico qui non è la cura ma la malattia stessa. L’invasione dell’analisi medica tocca un pulsare vitale di elementi diversi. L’artista, con una mossa di judo, vuole ribaltare il disagio in una catarsi che ha il brillare dell’arte. L’ago tocca il cuore dello spettatore in un contatto totale con lo stridore della fragile e dolorosa condizione del male e del suo rimedio.
Si tratta di un’opera particolarmente diversa da quanto Alfredo Santoro ha fin ora presentato al suo pubblico. Diversa per ambientazione, tensione emotiva ed immaginazione. Non più pesche notturne, né lanterne. Il lavoro può essere accostato ad alcuni suoi antichi collages di mi sono occupato tempo fa, tuttavia, non è neanche quello il punto di contatto. Devo testimoniare la mia personale difficoltà nell’accettare la brutalità di questa immagine e il suo drammatico afflato. Tuttavia, sono proprio queste caratteristiche così nettamente evidenti e l’angosciante sensazione che l’immagine propaga a renderla una testimonianza molto vivida della dolorosa condizione del male e della capacità dell’arte di raccontarlo e cambiarne gli esiti.
Mosè Previti