La corsia ospedaliera è pallida, un disegno sbiadito e freddamente tecnico dove non ci sono pazienti, solo apparati per curare. Un bambino ci guarda con un indefinito stupore, i suoi occhi lucidi ci chiamano dalla limpida infantile bellezza del loro smarrimento. Dietro di lui un clown, o meglio, un medico clown, riempie il grigio dell’immagine con sfere colorate di sapone.
La possibilità di salvezza c’è, l’artista decide di costruire una relazione tra mondi isolati a cui sfugge solo la via aperta dallo splendido sguardo innocente e straordinariamente emotivo del ragazzino. L’opera si appella all’empatia dello spettatore, l’empatia del medico è rappresentata dal suo gesto ludico.
Forse, la cura qui è proprio in questa relazione chi sta guardando l’opera, nel doppio confronto tra realtà e arte, in cui ci sentiamo implicati con un definitivo senso di responsabilità. Oltre l’ordine scientifico, l’apparato di pratiche e tecnologie moderne, la vita esige un coinvolgimento, deve trovare risposta nel cuore, nell’emozione. Il gioco certamente può distrarre dal male ma per certi versi ne rappresenta una purificazione, un viatico catartico, esattamente come l’arte. Nell’umanità della condivisione e nella messa in discussione delle regole, dei ruoli e degli spazi si situa la rivoluzione umana che l’arte opera strenuamente come sua fondamentale caratteristica. Non si tratta di un mero spettacolo da contemplare, l’invito di Dania Mondello è quello di prendervi parte attivamente.
Mosè Previti