Quattro personaggi, tre donne dallo sguardo spento, svuotato di vita, l’altro, un bimbo dai gesti innaturalmente congelati. Figure che vengono indagate a strati e che intrappolano ricordi ed emozioni di un tempo declinato al passato. È quello che sembra affiorare da questa, da questa reminiscenza che è uno scavo interiore epifanizzato con oli, tempere, velature, prima apposti e poi rimossi, scavati anche fisicamente, come in una regressione o in un grattage.
Del resto il termine medico che dà il titolo all’opera è desunto da un concetto fondamentale della filosofia platonica, per cui la conoscenza vera si fonda sull’anamnesi delle idee conosciute dall’anima in una propria esistenza iperurania anteriormente al suo ingresso nel corpo così come platonica, o meglio neoplatonica, sembra l’idea del togliere materia per far emergere la forma.
Nell’opera il doloroso scavo psicologico trova nella monocromia degli svariati toni di grigio, la sua chiave di lettura drammatica che lascia libertà controllata alle pennellate che si sfrangiano in modo casuale e che viaggiano tra la consapevolezza del gesto e lo straordinario evolversi delle cancellature e dei graffi.
Quest’opera narra vite dimenticate di volti, vite precedenti che si fatica a ricostruire ma che pure è necessario fare, fa riferimento, forse, a fatti o a violenze concrete ma lo fa in un’atmosfera soffusa attraverso il tocco leggero e l’uso sapiente della luce in cui i personaggi vengono immersi come in un magico fluido di un lieve lirismo.
Mariateresa Zagone