I graffiti sulle mura dei forti umbertini - Le firme dei soldati

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a cura di Enzo Caruso

Se le pietre potessero parlare, chissà quante storie potrebbero raccontare”. Una considerazione che nasce dalla consapevolezza che su ogni pietra è tracciato in modo indelebile la storia geologica della terra e antropica dell’uomo. Alcune pietre hanno cambiato il loro aspetto a causa degli agenti atmosferici, altre hanno modificato la loro forma per mano dell’uomo che ha voluto adattarle ai propri bisogni o trasferire su di esse il proprio estro. A differenza delle prime, alcune di queste ultime si caratterizzano per l’interesse legato al segno che l’uomo ha lasciato accidentalmente o consapevolmente su di esse, quasi ad affidare loro il compito di tramandare la memoria a quanti nel futuro sapranno interpretarne il significato e il valore.

E’ il caso delle pitture rupestri, o dei graffiti incisi dai condannati a morte nelle carceri, o delle parole che gli innamorati scolpiscono per giurarsi il loro eterno amore, o delle lapidi commemorative di un evento, di un luogo, di un personaggio che va ricordato. Recenti studi sulle “orme” lasciate dai soldati in alcune gallerie presso il Forte Valmorbiawerk in Trentino, durante la Grande Guerra, hanno condotto all’individuazione non solo del tipo di calzature indossate dai soldati, e quindi all’esercito di appartenenza e al periodo in cui queste erano in uso, ma anche a delineare i tratti somatici di chi le indossava.

A Messina, in particolare, tante pietre hanno cambiato “destinazione d’uso” a causa dei terremoti e dell’ultima guerra: le macerie delle case sono state più volte rivoltate, con conseguente rimescolamento e riutilizzo dei materiali lapidei. Ma le fortificazioni, che nei secoli hanno resistito non solo al nemico, ma ai terremoti, agli eventi bellici e soprattutto alle azione vandaliche e all’abbandono, conservano sulle loro mura la firma di coloro che per anni sono rimasti lì a vigilare, in attesa del nemico che doveva venire dal mare.

Le Fortezze umbertine dello Stretto, le nostre Fortezze, incastonate nella natura dei Peloritani, trasudano di storia che ancora va studiata e raccontata: si prestano ad essere lette pazientemente come un libro, attraverso i manufatti, la loro architettura strategica, le pietre e i mattoni con cui sono state costruite. Su quelle alture, generazioni di soldati hanno trascorso i loro migliori anni a scrutare l’orizzonte, a perlustrare il circondario, ad esercitarsi nel tiro o a vigilare in silenzio durante le ore di guardia, giorno e notte, nelle varie stagioni dell’anno, nei lunghi mesi della Leva obbligatoria. La leva militare nel Regno d'Italia, quando venne istituita, fu considerata uno strumento capace di cementare l'unità del paese, e proprio per questo motivo venne stabilito che il servizio di leva dovesse esser svolto lontano da casa. Fu una grande novità per l'intera nazione che diede a molti giovani l'opportunità di uscire dal proprio guscio, di vestire abiti diversi, di imparare a parlare, leggere e scrivere in italiano. Non tutto quindi era negativo e le famiglie compresero la nuova istituzione, intravedendovi per i propri figli opportunità di emancipazione, di crescita e conoscenza, nonostante il danno che ne derivava dalla perdita di braccia da lavoro.

Tra il 1883 (anno di inizio della costruzione del sistema difensivo dello Stretto) e il 1910, la durata del servizio di leva, inizialmente fissato in cinque anni, era già stato ridotto a tre grazie alla riforma del ministro Ricotti nel 1876. Erano sempre tanti e per questo, nel 1910, la leva scese a due anni (o ventiquattro mesi come si usava dire), e tale rimase, tranne per alcune classi, fino al termine della Seconda Guerra Mondiale quando fu portata a diciotto mesi. Trentasei, o ventiquattro o diciotto mesi di militare, alla fine poco importava in tempo di pace. Ma le generazioni, per le quali il periodo di leva cadde tra gli anni 1915-1918 o 1940-1944, ebbero modo di sperimentare privazioni e sacrifici indescrivibili. In quei tristi anni vennero coinvolti, insieme alle leve, anche i giovanissimi come la classe 1900 nella Prima Guerra o uomini fatti come nella Seconda quando furono richiamati anche i quarantenni.

Immaginiamo dunque, tra questi soldati, quelli che prestarono servizio nei nostri Forti tra il 1888 (anno in cui fu ultimato Forte Polveriera, oggi Masotto) e il 1943, distribuiti a migliaia con varie mansioni nei 23 presidi messinesi e calabresi o impegnati a manutenere la fitta rete di strade militari di collegamento; immaginiamo per ognuno di essi, il tempo trascorso dentro un garitta durante i turni di guardia, con lo sguardo puntato sul mare, ad aspettare. Sono lì, a poche centinaia di metri di distanza uno dall'altro, imprigionati nella dura vita della fortezza; sembrerà di udirli ancora, mentre percorrono i camminamenti: Là, mentre si attendono gli ordini, il vento restituisce l'eco dei loro discorsi: confidenze sulla nostalgia per la fidanzata lasciata al paese, sulle sofferenze procurate da una lontananza obbligata dalla leva o dalla guerra. Ed ecco il desiderio di incidere sulla pietra, sul mattone o sul cemento il proprio nome per lasciare ad imperitura memoria il proprio passaggio per quei luoghi.

E mentre di Giacomo Matteotti, soldato a Forte Cavalli, ci restano le lettere inviate alla moglie da Larderia, di molti altri ci resta solo il nome, la provenienza e la classe di appartenenza. A decine, in quasi tutti i Forti, ad uno sguardo attento, saltano agli occhi i graffiti incisi sui mattoni delle finestre, sulle mura perimetrali o sui camminamenti di ronda.

Nome, contingente, classe e provenienza. Con questi tre elementi i soldati hanno “marchiato” la loro presenza a Forte dei Centri, Ogliastri, Campone, Puntal Ferraro, Serra La Croce. Proprio quest’ultimo conserva un gran numero di graffiti incisi sui pilastri del ponte levatoio e nei pressi della garitta telemetrica posta sugli spalti. Gente venuta da Torino, Varese, Roma, Tivoli, Frascati, Velletri, Viterbo, Napoli, Pesaro, Potenza, Catanzaro, Trapani, nati nel 1888, 1891, 1903, 1905, 1908, 1910, 1912, 1914, 1922, 1930, 1932, 1937, 1938. E poi, decine e decine di firme, di nomi e di date.

Così, mentre il tempo scorreva lento su quei monti, uomini venuti da ogni parte d’Italia hanno consumato tra quelle mura anni preziosi della propria vita, in attesa che qualcosa accadesse e riempisse di “gloria” i loro racconti futuri. Ma il nemico si sarebbe fatto attendere, proprio per la presenza di un sistema difensivo pensato impenetrabile, nato come efficace deterrente verso coloro che avessero provato impunemente a forzare lo Stretto. Per molti di quei soldati, sconosciuti ai libri di storia e dimenticati, resta però il nome scritto in modo indelebile sulle mura di ogni fortezza. E oggi, è giunto il momento di ridar loro dignità e onore.

Dalla sua finestra il comandante della Fortezza guardava verso il Settentrione… Dal Nord doveva giungere la loro fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita” […]. Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.