“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo)
Quartarone racconta, Quartarone continua a narrare, e lo fa con tutto il suo impegno, con tutta la generosità dell’anima, mettendo nell’opera il suo vissuto. Un vissuto di bellezza, di “incontro”, di umanità. La visione di Luogo della coscienza, del suo apparente caos, del suo horror vacui, ci incuriosisce, ci prende, ci fa venir voglia di conoscerne la storia che ha inizio nel 1994 e che ha la sua necessaria premessa nella legge n. 180 del 13 maggio 1978, la legge Basaglia. Nata nel segno delle grandi speranze, il suo nucleo innovatore consisteva nello smantellamento definitivo dei manicomi, autentiche fabbriche della follia, produttrici di emarginazione, degradazione umana, sfruttamento. Si delineò così un compito nuovo, affascinante e insieme difficilissimo: il recupero del malato di mente e il suo reinserimento nel contesto sociale. Ed ecco che Stello Quartarone, gratuitamente e per dieci lunghissimi anni, lavora accanto all’illuminato psichiatra Matteo Allone direttore dell’ex manicomio messinese ad un progetto innovativo in cui al centro di tutto c’è l’espressione artistica. Quartarone si innamora di questo nuovo progetto arrivando a trasferire il proprio studio all’interno del grande capannone del Mandalari, e si innamora anche, seguendolo più di altri, di un paziente in particolare, Gaetano Chiarenza, lì ricoverato a partire dall’adolescenza che, guidato pazientemente, usa i colori e la pietra arenaria per manifestare un mondo interiore di grande purezza primitiva. Ed è proprio uno dei suoi totem che Quartarone inserisce in quest’opera i cui segni più evidenti, non a caso, sono delle sbarre al di là delle quali un mosaico di momenti vissuti, un collage del tempo trascorso ci rimandano la narrazione per flash di quest’esperienza unica vissuta nell’amore per i più reietti ed emarginati, violentati da una violenza cieca fatta soprattutto di isolamento. All’interno della gabbia metaforica, inchiostri su cartoncino lucido, scritti personali dell’artista, fotografie, ritagli di giornale, nonché la riproduzione dell’occhio di Chiarenza (realizzato dal collettivo fx sul muro dell’ex o.p.), ma capovolto, a guardare oltre la prigione della malattia mentale, oltre la prigione in cui “i folli” sono relegati... prigione da cui l’occhio, con lo sguardo, sembra uscire così come esce la scultura, l’arte appunto.
Mariateresa Zagone