Con “La parte muta del canto”, edito da Joker Edizioni, l’autore Giorgio Galli offre al lettore una serie di ritratti di compositori e direttori d’orchestra che hanno contrassegnato la musica classica.
Scopo precipuo di questi ritratti è di non essere volutamente esaustivi, ma di incentrarsi su un aspetto dei protagonisti descritti. Come dichiara lo stesso autore, alcuni interpreti sono affrontati più volte “in una luce diversa”: Arturo Toscanini, Gustav Mahler e Hans Rott; mentre altri sono “tratteggiati quasi di sfuggita”. Tra questi si possono citare l’inglese Orlando Gibbons – uno dei maggiori compositori del tardo Rinascimento inglese insieme a Dowland e Byrd - e l’italiano Andrea Luchesi, che nel Settecento ricoprì la carica di maestro di cappella della cattedrale di Bonn subentrando a Ludwig van Beethoven senior (il nonno del famoso compositore del Romanticismo tedesco).
Il merito di quest’opera è di illuminare su alcuni passaggi delle opere dei compositori trattati, cercando di captare l’istante che ha dato vita a quel determinato suono e che, a sua volta, evoca “altri suoni che nessuno sta suonando, e che pure ci sono”. È il caso ad esempio degli Hymnes and Songs of the Church di Gibbons, una serie di canti liturgici comparabili ai canti folk o blues la cui bellezza della melodia ha ispirato alcuni dei maggiori musicisti del Novecento come Glenn Gould e Leonard Cohen. A tal proposito Giorgio Galli evidenzia come nella musica di Gibbons emerga “una felicità perduta nel cui ricordo s’insinua il dubbio che non sia mai stata realmente felice. Le memorie si cristallizzano e la cosa rammemorata appartiene sia ad un passato rimpianto che a un futuro verso cui si tende”. Sembra di scorgere in queste composizioni piuttosto che la nostalgia, un’anticipazione di quella malinconia per la finitezza consunta che sarà propria dell’arte barocca e di cui Gibbons ne sarà, in campo musicale, uno dei traghettatori. Una malinconia che a mio parere possiamo riscontrare anche in campo letterario non solo nel Don Chisciotte di Cervantes e altre opere seicentesche, ma nel pieno della belle époque: come ad esempio nella Recherche di Proust.
Nel primo volume del grande romanzo dello scrittore francese ritroviamo uno Swann malinconico, che nell’ascolto di una composizione per piano suonata da un giovane pianista a casa di Madame Verdurin scorge una musica già nota e che, a quanto pare, è frutto del genio dell’insignificante Vinteuil ma che, nonostante tutto, gli ricorda l’amore che un tempo provava per la dame en rose: la moglie Odette de Crecy.
La belle époque ci porta così a Gustav Mahler e Hans Rott. L’autore analizza con acume il rapporto tra i due colleghi e compagni di corso al Conservatorio di Vienna e come in loro si avverta al massimo il conflitto tra le due tendenze musicali principali nella Vienna di fine Ottocento: l’espressionismo di Wagner e il formalismo di Brahms.
Molto approfondito è anche il rapporto dei compositori del Novecento con il nazifascismo o con la registrazione discografica e come anche ciascun musicista abbia concepito la realtà in maniera differente. Quest’ultimo punto è trattato approfonditamente in particolare nel capitolo su Janáček e nell’ultimo concernente il rapporto tra Glenn Gould e Leonard Bernstein.
Se Janáček si scaglia contro i romantici per aver trasceso la musica popolare e contro Wagner per i suoi eccessi espressivi, per affermare invece una musica che riproduca esattamente la natura, come il canto degli uccelli, e la realtà quotidiana; in un musicista come Glenn Gould si ha all’opposto una scomposizione della realtà che viene commentata e analizzata nel mezzo o a termine di ogni esecuzione.
“La parte muta del canto” se ha dei pregi ha anche dei difetti.
Innanzitutto sarebbe stato forse quanto mai opportuno non trattare alcuni autori, come Andrea Luchesi, di cui per mancanza di informazioni non si può avere una comprensione completa né della vita né tantomeno dell’opera. Nella fattispecie si ha soltanto la triste sensazione che i compositori che sono subentrati a Luchesi, come Mozart e Beethoven, abbiano voluto opportunisticamente condannarlo alla damnatio memoriae.
Un ulteriore difetto lo noto nell’interpretazione del terzo Lied dei Lieder eines fahrenden Gesellen (Canti di un uomo in cammino) di Gustav Mahler – nel suo complesso invece molto interessante - in cui si avverte una mancanza di coerenza con la riflessione perseguita dall’autore. Questi afferma che nel terzo Lied “il contadino è solo con le sue ossessioni. Non esistono oggetti del mondo se non evocati dalla sua memoria in subbuglio […] Qui i versi sono decisamente inferiori, attingono alla tradizione del melodramma e in italiano diventano ancora più ridicoli […] La musica è molto migliore dei versi: dopo un attacco così violento che quasi sbalza l’ascoltatore dalla sedia, la zona centrale è marcatamente onirica, fatta di poche note mesmericamente ripetute, come nell’ossessione, nella pazzia”. A mio parere non c’è stato alcun errore da parte di Mahler nel voler utilizzare un linguaggio così semplice in un momento in cui lo stato d’animo del protagonista è agitato. Inoltre ci troviamo di fronte a un contadino e non a un uomo colto dallo spirito dolente come il Werther di Goethe. Il linguaggio del contadino è pertanto a mio parere nella sua semplicità e nel suo strazio perfettamente all’altezza della musica di Mahler.
Per quanto riguarda invece Hans Rott non riesco a condividere, a contrario dell’autore, l’eccesso di empatia nei confronti del suo destino. Sarà pur stato un genio precursore dei tempi da cui Mahler ne ha colto i frutti, ma senza dubbio da che mondo in mondo quando si compone un brano – per quanto universale possa essere – se sono ben accetti i richiami non lo sono le citazioni. Sapendo che nella commissione del concorso di Vienna ci sarebbe stato Johannes Brahms, Rott avrebbe dovuto avere l’accortezza di non inserire nella Sinfonia N.1 citazioni delle opere del compositore amburghese sperando di conquistarsene i favori. A nessun musicista piace essere emulato, tanto è vero che esistono le denunce per plagio. Pertanto non si può avere compassione per Rott e se Brahms l’ha bocciato non lo fece per inimicizia nei confronti di Anton Bruckner; ma per fargli comprendere che anche un musicista talentuoso, per quanto geniale, deve restare con i piedi per terra e volare basso: altrimenti si finisce per fare la stessa sorte di Icaro. Certo dispiace che Rott ne abbia fatto una malattia di questa bocciatura e sia morto in un ospedale psichiatrico. Quando muore una persona di talento è sempre una grande perdita e lo sconforto di Bruckner nell’assistere alla prematura scomparsa del suo allievo prediletto è perfettamente comprensibile. Tuttavia ciò non giustifica l’arroganza di Rott. Un po’ di umiltà e pazienza gli sarebbero state d’aiuto, facendogli comprendere che prima o poi il suo momento sarebbe arrivato. Così come poi alla fine giunse per l’amico Mahler.
In conclusione “La parte muta del canto” è una raccolta di ritratti di compositori e direttori d’orchestra che - nonostante qualche difetto in fin dei conti irrilevante - merita di essere letta per l’acume delle riflessioni e lo stile sensibile e intenso dell’autore, a tratti poetico, che fa venire voglia al lettore di immergersi nell’ascolto delle composizioni dei musicisti trattati.