Ironia, forse meglio gioco, senza necessità di astrazione, senza l’obbligo intellettuale del concettualizzare, puro diletto in questa opera scanzonata e leggera di Antonello Arena che, con un’operazione divertita di bricolage, costruisce il suo scenario-mondo, oggetto concretamente percettivo sul quale galleggiano pillole colorate, cambiandone la scala dimensionale.
Un mondo minuscolo su infiniti oceani metallici, centinaia di ribattini, di giunti meccanici che inchiodano le lamiere al supporto in un processo di appropriazione della realtà nelle sue coordinate spaziali e temporali che supera anche quella sorta di feticismo insito nel ready made. Sembra che Arena giochi al meccano mentre accosta senza saldature le tessere del suo mosaico fatto di lattine aperte di bibita o di lastre di alluminio industriale nei cui interstizi emerge il colore del supporto.
L’artista ci propone un intervento sulla realtà e sugli oggetti di uso comune della nostra vita, dei quali muta il valore e il senso arrivando con la sua azione del fare alla nostra percezione in maniera mirata, i suoi oggetti non sono quindi oggetti estetici in senso duchampiano, non sono decontestualizzati ed elevati alla dignità di opera d’arte, sono piuttosto utilizzati nella loro qualità di elementi della civiltà che accompagnano il nostro banale quotidiano, frammenti eterocliti che, come tali, sono inclusi nell’opera in una sorta di combine-painting. Lontanissimo Arena dalla glorificazione dadaista dell’ oggetto, lo demistifica volgendolo, forse, verso un’ironizzazione della civiltà dei consumi e, comunque, verso un puro divertissement.
Mariateresa Zagone