Quest’anno si tiene il trentesimo anniversario di Iperborea, una piccola casa editrice milanese specializzata in letteratura scandinava. Durante l’anno ho già pubblicato delle recensioni sui libri di questa casa editrice. L’idea di scrivere l’ennesima recensione di un romanzo da essa pubblicato nasce dal fatto che Iperborea ha deciso di festeggiare la terza decade di vita nel mondo editoriale attraverso una collana dal numero di titoli circoscritto e dalla veste grafica rinnovata. La collana in questione si chiama “Luci” e ripropone dieci classici della letteratura scandinava che hanno segnato il successo di Iperborea ma che, nel frattempo, erano divenuti introvabili in quanto fuori catalogo. Tra i libri riproposti ci sono “Jerusalem” della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, “La regina di Saba” del controverso scrittore norvegese Knut Hamsun e il titolo che inaugura la collana: “Niels Lyhne” di Jens Peter Jacobsen.
Niels Lyhne è un romanzo di formazione pubblicato dallo scrittore danese sopracitato nel 1880 ed è annoverato tra i classici della letteratura nordica. L’opera infatti ebbe molto successo, soprattutto in seguito alla morte dell’autore avvenuta nel 1885, tanto da diventare un bestseller, in particolare nei paesi di lingua tedesca. Molti scrittori tedeschi, infatti, come Stefan Zweig, Rainer Maria Rilke e Thomas Mann considerarono il romanzo di Jacobsen un libro indimenticabile e imprescindibile nella loro maturazione artistica, tanto da definirlo come “il Werther della loro generazione”.
Il romanzo narra la vita del poeta ateo Niels Lyhne dalla nascita alla morte. Cresciuto in una famiglia agiata - il padre è un colto proprietario terriero che ha rinunciato all’arte per dedicarsi ai propri terreni e alla contemplazione della natura, mentre la madre è una fervida lettrice disillusa dal marito e vorrebbe per il figlio un glorioso futuro d’artista – Niels Lyhne fa propria l’idea dell’immaginazione come forza motrice della vita umana e stringe amicizia con Erik, un aspirante pittore e scultore. Crescendo Lyhne e Erik sperano - l’uno con la poesia l’altro con le arti figurative - di poter rappresentare il fluire vitale dell’esistenza, di poter afferrare la vita in tutta la sua naturalezza. Niels abbandona la fede cristiana per abbracciare l’ateismo e ciò comporta in lui un mutamento esistenziale profondo che prende la forma della nostalgia.
Come nello stadio estetico di Kierkegaard, Lyhne vive tutta una serie di possibilità che però non riesce a vivere con pienezza. All’angoscia per una vita senza Dio si accompagna così la nostalgia del passato che non c’è stato, dell’istante in cui arte e vita sembrano fondersi come per incanto ma che altrettanto rapidamente svanisce per non ripresentarsi più. Il protagonista si sente abbattuto, poiché la vita gli appare inafferrabile. Il suo è un esilio perpetuo dalla realtà che lo trancia in due – nell’essenza come nell’esistenza - proprio nel momento in cui la felicità sembra a portata di mano. Se la vita giungesse per Niels Lyhne non ci sarebbe bisogno di esprimersi a riguardo attraverso l’arte, poiché in tal caso “il canto sarebbe vita” e viceversa.
Jacobsen descrive abilmente la nostalgia di Niels Lyhne unendo la descrizione scientifica dei fatti naturali - si pensi alle descrizioni minuziose delle piante, alle loro fasi di crescita e al loro mutare con le stagioni, dovuta alla sua professione di botanico e massimo divulgatore danese del darwinismo - al lirismo poetico con cui collega i palpiti di vita non solo del protagonista, ma di tutti i personaggi che compaiono nell’opera.
A mio parere Jacobsen è riuscito a mostrare molto più di Kierkegaard la crisi dei valori dell’uomo contemporaneo. Il positivismo per lo scrittore danese non è in grado con la sua fede assoluta nel progresso scientifico e nel pensiero empirico a dare una risposta, ma a differenza del famoso filosofo esistenzialista sopracitato Jacobsen sembra voler affermare che non ci sia via di scampo dalla vita estetica. Non si può tornare a Dio attraverso una scelta dettata dall’angoscia, dal timore e dal tremore. La morte di Dio è per lui un dato di fatto e non è possibile un riscatto religioso dettato da una scelta consapevole. Tuttavia non è nemmeno possibile un oltreuomo nicciano capace, attraverso l’arte, di ricreare la vita nel suo eterno fluire. Ogni pensiero è pura negazione, pertanto insufficiente in quanto tale ad afferrare la vita. L’ateismo di Lyhne si manifesta come negazione di ogni forma di pensiero, poiché la ragione non può riassumere in un sistema la molteplicità della vita. D’altra parte l’irrazionalità non è una soluzione. Ciò si evince soprattutto nel comportamento che tutti i personaggi comprimari hanno nei confronti di Lyhne e degli altri. Perfino la persona al protagonista più affine, l’amico d’infanzia Erik, tradisce negli ultimi anni della sua vita gli ideali in cui crede per sprofondare nell’ignominia e nel tradimento di sé e degli altri, in primis della moglie. Al deserto dei valori non resta che rispondere morendo per l’ateismo, per la negazione dei valori e di ogni forma di pensiero. Soltanto in questo modo ci si può riconciliare con sé stessi e nel delirio della “morte difficile” afferrare definitivamente la vitalità della terra.
In conclusione Jacobsen anticipa quelle tematiche come l’assurdo che poi saranno analizzate con acume da Albert Camus. In un certo senso Jacobsen rimane fermo, a mio parere, al primo Camus. Quello de “Il Mito di Sisifo” e de “Lo Straniero” per intenderci, secondo il quale bisogna immergersi nella vitalità dell’esistenza e morire stoicamente negando e accettando la vita così com’è. In Lyhne come Meursault e Sisifo c’è la presa d’atto che non c’è un valore su cui fondare il mondo, perlomeno non è stato ancora formulato, e non rimane altro che andare incontro all’assurdità del proprio destino.