Kirk Douglas ha consegnato per primo a Hollywood Vincent Van Gogh. Il film si intitola Lust For Life, è del 1956 e per quella interpretazione notevolmente intensa e drammatica Douglas è stato pure candidato all'Oscar come migliore attore protagonista. Poi, trentaquattro anni dopo, con Vincent e Theo è arrivato il Van Gogh di Tim Roth, diretto da Robert Altman che ha scelto di delimitare il racconto (delimitare si fa per dire, dal momento che si tratta di quattro ore di film, inizialmente pensate come mini serie tv) al tormentato rapporto tra Vincent e suo fratello Theo. Forte sicuramente anche quello, urlato, ma che lascia segni non troppo profondi, come invece ci si sarebbe potuti aspettare da uno dei lavori del regista americano.
E via, si potrebbe andare avanti ancora molto con le pellicole, tra documentari e fiction, che hanno portato sullo schermo momenti della vita del pittore olandese. Non si troverebbe, però, niente come quello che abbiamo la possibilità di vedere ora con Loving Vincent, film diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, nelle sale italiane solo il 16, 17 e 18 ottobre, distribuito da Nexo Digital e Adler Entertainment. A dire la verità, nessun film finora realizzato è paragonabile a questo: quello che, infatti, in sei anni di lavoro è stato creato è il primo lungometraggio interamente dipinto. Un'opera, per rendere semplice quello che semplice non è stato affatto, prima recitata da attori, poi trasformata in film d'animazione da una squadra di centoventicinque artisti che hanno riprodotto su tela ognuna delle 65mila inquadrature. Dipingendo nello stile di Van Gogh, naturalmente. Gli attori, quindi, che hanno assunto i ruoli dei protagonisti dei quadri di Van Gogh sono poi stati ri-trasformati in quadri. Il risultato è che a raccontarci della vita del pittore sono i suoi personaggi. Uno in particolare, Armand Roulin (recitato da Douglas Booth, Jupiter: Il Destino dell’Universo, Noah), figlio del postino barbuto Joseph Roulin (Chris O’Dowd, Le Amiche della Sposa, IT Crowd), con il suo soprabito giallo e il cappello a falda larga, intraprende un viaggio che da Parigi lo porta a Auverse – sur – Oise, (il villaggio dove Van Gogh ha trascorso gli ultimi giorni di vita) deciso a investigare sulle cause che hanno spinto Vincent a suicidarsi.
Se, e non è certo uno spoiler, Armand non ne verrà a capo, quello che ci offre il film, oltre a momenti di meraviglia, come, ad esempio, quando lo stormo di corvi prende davvero il volo dal campo di grano o quando, dopo qualche secondo in cui la ripresa indugia su di lui immobile, il dottor Gachet, medico di Vincent, solleva la testa dalla mano sulla quale era poggiata, è un punto di partenza nuovo nel rapporto tra arte e cinema, tra biografie e grande schermo: "Ci sono tantissimi biopic che raccontano la storia degli artisti prediligendo la sfera personale o scegliendo e insistendo su un aspetto della vita di un pittore – ci racconta Kobiela - È la parte umana che vince su quella artistica". Con le dovute eccezioni, certo: "Caravaggio, il film di Derek Jarman, mi piace molto. Ma quello che volevamo fare noi era un ulteriore passo avanti rispetto a ciò che è stato fatto finora: servirci dell’arte per narrare la storia del personaggio".
Già in Mr Turner, il film del 2015 di Mike Leigh, si poteva intravedere un approccio diverso al modo di raccontare l’artista. Già in quella pellicola ci si soffermava di più sulle opere rispetto ai tradizionali biopic. "Ma per un’operazione del genere – continua Kobiela – è Vincent la persona più adatta perché i suoi quadri rappresentano e sono la sua vita". Anche perché nei suoi dipinti non ci sono personaggi inventati, sono tutti assolutamente veri, sono esistiti e hanno avuto un ruolo, più o meno importante, nella vita dell’artista. Immagini o foto delle opere che si intravedono qua e là durante il film sembrano non essere più sufficienti, sembrano non riuscire a catturare la complessità della persona. E Loving Vincent non vuole dover scegliere una sfaccettatura alla quale aggrapparsi per tutta la durata della narrazione. L'obiettivo è, invece, abbracciare la totalità della figura di Van Gogh. Raccontare quello che raccontano i suoi quadri nei quali c’è spazio tanto per colori violenti, come ad esempio quelli utilizzati nel ritratto di Père Tanguy, il fornitore di pittura di Vincent che nel film è interpretato da John Sessions (Gangs of New York), quanto per i delicati pastelli utilizzati per dipingere l'incarnato del viso di Marguerite Gachet (Saoirse Ronan, nominata all’Oscar per le interpretazioni in Brooklyn e Espiazione), figlia del dottore. Saltare da un quadro all’altro è proprio come passare "dall’essere perfettamente calmo a decidere di suicidarsi, in sei settimane".
È da questo punto di rottura che muove la storia, è con l'obiettivo di comprendere se e come possa succedere una cosa del genere che, a un anno di distanza dalla morte del pittore, Joseph Roulin chiede a suo figlio Armand di partire. "La parte più complessa è stata completare la sceneggiatura, costruire una storia a partire dai quadri". Per farlo Kobiela e Welchman si sono serviti di circa ottocento lettere scritte e ricevute da Van Gogh "la prima volta che le ho lette – ricorda la regista – avevo sedici anni. Ne sono rimasta subito affascinata e colpita: tutte le sue ansie, le sue preoccupazioni erano lì". Gli scritti e i dipinti sono dunque ciò che resta, quello che sopravvive all'uomo e che ci racconta dell'uomo. Ed è lo stesso Van Gogh a dircelo: "possiamo parlare soltanto attraverso i nostri quadri".
A Messina il film sarà in programmazione presso il Cinema Apollo e l'Uci Cinemas dal 16 al 18 Ottobre
Fonte: (La Repubblica/Spettacoli)