I siciliani sono guerrieri
Davanti alla porta del teatro di legno c’erano uomini e bambini. Venivano da tutto il quartiere Giostra, quartiere popolare periferia nord della città di Messina. Gli anni ’60 passavano anche da lì con tutte le loro promesse, le trasformazioni automatizzanti della modernità. Quel pomeriggio, un bambino si infilò tra le gambe degli adulti, guadagnando di nascosto l’ingresso. Era solo e senza soldi. Non l’avrebbero fatto entrare, ma la voglia di vedere lo spettacolo era troppo forte e quel bambino non aveva nessuna intenzione di rimanere fuori tra bancarelle che si preparavano ad affrontare il temporale in arrivo. Il bambino trovò posto in seconda fila, nascosto dalle sagome baffute degli uomini seduti davanti con le mani aperte sui tavoli. Ad un tratto, la mani si chiusero in pugni e tutto il teatro inizio a chiamare. Orlando nella sua armatura di latta scintillante fece la sua baldanzosa apparizione e la voce del puparo Rosario Gargano tuonò animando lo spettacolare incantesimo dell’opra dei pupi. Gli spettatori tifavano, battevano i piedi per terra, davano il “cornuto” a questo e a quello.
Anche loro, come i paladini di Francia, stavano combattendo. Quando arrivò il temporale il pavimento si inondò d’acqua e gli adulti rimasero a guardare lo spettacolo tenendo i piedi comicamente sollevati da terra, continuando a urlare e tifare. Il bambino non si accorse di nulla fino a quando, un attimo prima che la calca si radunasse davanti alla porta, non si bagnò fino alle caviglie correndo verso casa da dove era scappato senza dire niente.
- Perché i tuoi pupi non hanno fili?
- Perché rappresentano i siciliani. I Siciliani non sono pupi, i siciliani sono guerrieri.
Alla mia domanda ha risposto il bambino che cinquant’anni fa s’intrufolò nel teatro Gargano. Quel bambino è Gregorio Cesareo, l’artista protagonista di questa mostra. I suoi Siciliani emergono dal buio con l’enigmatica carica di una viva fierezza, ci stordiscono con la ricchezza del loro armamento e iniziano a raccontarsi nell’attimo stesso in cui li guardiamo. L’occhio sedotto dallo sfarzo marziale indugia sull’armatura lavorata: i gambali, la corazza, lo scudo, il ricco mantello e l’elmo sbuffante di piume. Però non li temiamo, il loro aspetto ha qualcosa di fragile e scenografico. Così scopriamo che le gambe son uno sbuffo di stoffa e la spada vibra colpi che non toccano mai, sorretta da un braccio rachitico senza muscoli. Sembrano in tutto bambole mosse da un’invisibile burattinaio. Tuttavia, i loro volti, dagli occhi strabici e il colorito paonazzo, li rendono potentemente vivi. Le grandi mascelle serrate conservano l’energia della battaglia e i baffi curatissimi ne mantengono l’onore aristocratico. Il saraceno, Biancardino o Agolante o Pulicante, guarda lontano con espressione intelligente, ci ignora, forse sta pensando ad una strategia per vincere Carlo Magno, forse sta ricordando una poesia araba, di quelle che nel Medioevo reale dei tempi andati riempiva le notti degli accampamenti guerreggianti in Terra Santa, o forse pensa all’amata prima della battaglia di Poitiers o dopo qualche temporanea sconfitta inflitta ai francesi normanni giunti in Sicilia per conquistarla.
Questi paladini sono potenti narratori di se stessi, la loro presenza accende un meccanismo inconscio di regressione infantile, un ritorno alla dimensione di perpetua meraviglia che i bambini provano quando scoprono i fatti del mondo. Inoltre, possono essere considerati anche come archetipi culturali di un sentimento guerreggiante, cocciuto e battagliero che è uno degli tratti salienti del carattere siciliano. Identico piglio è presente nell’arte e nella persona di Gregorio Cesareo. La sua pittura, così abile nel rappresentare la complessità di armamenti e abbigliamenti regali, in realtà è spontaneamente organizzata dal colore che, senza disegno preparatorio, costruisce una trama barocca, sinuosa e frastagliata di tessuti, merletti, bruniture. Questi elementi che l’occhio percepisce come dettagliatamente e realisticamente resi, sono, in realtà, veloci guizzi di colore, variazioni tonali e luministiche ottenute da un tocco rapido e consapevole. L’effetto teatrale è il risultato della sua perizia tecnica, derivata dalla pratica e dallo studio della pittura veneziana e barocca. Cesareo tieni ai suoi modelli, a qualificarsi anche come studioso della stagione più intensamente cromatica e carnale della pittura: il ‘600. Tuttavia, il ‘600 è anche il secolo del teatro, dell’artificio, dell’ambiguità, del gioco. Gioco che, a mio avviso, è presente in tutta l’arte di Cesareo, sia come spirito della sua creazione sia come invito dell’artista allo spettatore. I pupi ammaliano con la loro bellezza ma i dettagli rivelano la loro natura di giocattoli, di artifici, di marionette in attesa di essere animate. Eppure, c’è qualcosa di drammatico e doloroso nel loro riposo e nel loro duello davanti al cielo finto e vero insieme. È forse il loro desiderio di diventare guerrieri? È forse la loro segreta ansia di alzarsi e combattere veramente che si rivolge a noi come un monito e un richiamo alla vita, alla necessità di esserci presenti e attivi nel mondo? Non lo sappiamo, l’arte non può dare spiegazioni. Tuttavia, questi pupi non la smettono di esserci, in loro c’è l’essenza segreta dei guerrieri, l’ardore indomito degli eroi, e tutta la vita magmatica, contradditoria e antica dei siciliani.