Cose da matti

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 - È un poco fuso.

 - Si, dicono sia un artista.

 - Infatti, si vede. È proprio completamente fuso.

 - Come tutti i grandi geni.

 - Certo, tutti i geni erano matti.

E ci dispiace per gli altri, verrebbe da dire. Il punto è che la categorizzazione degli artisti come matti, dei geni come irregolari, con grande piacere per gli stessi artisti e per la narrazione mediatica della cosiddetta “società normale” è venuta a rafforzare questa visione dell’artista come outsider. Ma non è stato sempre così.  Artista significa, letteralmente, qualcuno che lavora con gli arti.  La grande tradizione artistica e artigianale italiana ha lavorato lungamente affinché, a partire dal Rinascimento, l’artista divenisse riconosciuto come individuo perfettamente integrato, e in posizione di primo piano, all’interno della società dell’epoca.  La rivoluzione industriale e l’avvento della fotografia hanno completamente ribaltato questo paradigma.  La tecnica, come sistema di progettazione e produzione di beni e manufatti di ogni sorta, scardina la bottega, che è il luogo in cui so forma l’artista con un patrimonio teorico pratico che diviene sempre meno importante, fino a sparire. Non più ritratti, non più artisti per fortezze, ponti e strade. Ci sono ora fotografi, ingegneri e squadre di operai che eseguono meccanicamente gesti che non capiscono.

Gli artisti si lanciano in una ricerca estetica priva della committenza, il presupposto della produzione artistica fino allora.  L’artista vive ai margini, di notte, insieme agli abitanti della nuova città illuminata dalle luci delle lampade a gas, impestata dai fumi delle case super affollate, e delle fabbriche rumorose.  Un mondo insalubre, quello della città moderna.  Povertà, miseria, follia. Lo stato ottocentesco, moderno, positivista, liberale, costituisce il suo diritto su una costante capacità di analizzare e stabilire chi è matto da chi è normale, e quando non ci capisce niente, le persone finiscono comunque in prigione, bene che vada.   Oggi sappiamo che le disabilità mentali sono malattie che possono essere affrontate, soprattutto, possono essere affrontate nel rapporto e nello scambio con la società cosiddetta “normale”. Sulla “normalità” della società contemporanea ci sarebbe moltissimo da discutere, e le posizioni tra tutte le discipline sociologiche e psicologiche sono piuttosto critiche nell’analisi del mondo di oggi. Tuttavia, per l’artista rimane sempre il fascino dell’irregolare, del matto. Quando la “follia” non c’è, certi noti artisti se la inventano, anche per questioni di marketing. Tuttavia, a mio avviso, la follia non è una caratteristica dell’artista semplicemente perché la follia è una definizione filosofica e medica che si muove nel territorio scivoloso dell’animo umano. Un territorio complessissimo in cui, invece, l’arte riesce a dare voce ai sentimenti, ai traumi, alle paure. Espressioni libere, liberate, senza valutazioni e senza giudizio. Una liberazione, una catarsi che può avvenire nell’animo di una persona perfettamente normale quanto in un matto. L’artista c’è in ogni uomo, tuttavia alcuni hanno modo singolari e traumatici per scoprirlo, e alcuni uomini sono più artisti di altri. In oltre, la nostra concezione d’arte contemporanea si fonda anche sullo sconfinamento intellettuale che tra ‘800 e ‘900 e poi, definitivamente con Dubuffet nel secondo dopoguerra, ha incluso nell’estetica corrente e le sensibilità dell’arte prodotta da pazienti degli ospedali psichiatrici e dai bambini.  L’artista è tale al di la qualsiasi classificazione del suo stato di salute che non possono in alcun modo impedirci di vedere, di guardare quello che ha fatto.

Adolf Wölfli (Bowil, 1864 – Berna,  1930) era schizofrenico. Fin da bambino, la vita l’aveva messo a durissima prova.  La sua arte è figlia della sua esistenza ma anche della sua straordinaria visione estetica, dalla sua incredibile capacità immaginativa e dalla sua monumentale volontà. In trent’anni questo grande artista svizzero realizzò 1300 disegni, diversi quaderni di scritti e una autobiografia di oltre venticinque mila pagine. Oggi la sua sensibilità estetica risulta profetica. Anticipa alcuni grandi suoi conterranei e non, Giger, Klee e Dubuffet e anche una certa grafica popolare che dagli anni ’70, quando il recupero della folk art divenne un movimento etno antropologico con molteplici ricadute nella società di massa. Siamo diventati tutti matti? Può darsi, tuttavia, ritengo molto salutare affrontare le discussioni sull’arte e sulla vita con la massima libertà e senza l’oppressione cancerogena della valutazione, perché il tempo è sovrano e le definizioni finiscono sempre per sembrare pallide scritte sulle lapidi dei cimiteri.

 

Mosè Previti