Cosa guardiamo quando ci troviamo davanti ad un quadro? E cosa vede, quando indugia su una tela, il nostro sguardo di adulti disincantati, immerso nel proliferare di immagini del nostro tempo iconizzato? Il colore, le forme, i dettagli?
Capita che, improvvisamente, ci accorgiamo che la leggibilità del quadro non è poi così evidente; e se la didascalia indicata dall'artista può venire in aiuto per "intendere" quel che lo sguardo cerca di decifrare, è in realtà la tela stessa che come ricorda Jacques Lacan —doma lo sguardo.
Guardiamo e ci chiediamo cosa sia quel quadrato azzurro o quel trapezio arancio o quei triangoli turchini, violetti, cilestrini. E più ci si immerge nel quadro, più sfugge il senso delle forme, più guardiamo quei colori e più la tela impone di guardare ancora e collegare; e se ci coglie l'inquietudine dell'esperienza estetica, quelle stesse forme, mentre si rivelano un “sistema” moltiplicatore di significati, ci interrogano.
Ci "punge" la curiosa passione per la concretezza fisica dei particolari, proprio la passione stessa per le forme e i colori: è un piccolo dettaglio, qualcosa che altre volte ci è sfuggito, ciò che ci colpisce, è il "punctum", diceva Roland Barthes, quel particolare che scava nella memoria del rimosso portando allo scoperto le nostre emozioni. Ed ecco che un cerchio sembra la luna o il sole, un triangolo una montagna o un vulcano, un cilindro un albero andato, una serpentina un vorticare di sabbia o di flutti, un quadrilatero blu e viola il mare delle Sirene, con la sua malìa d'amore e di morte.
Ma se l'artista si è liberato dall'impasse del figurativo, di quella che Kant chiama "la bella rappresentazione di un oggetto", ogni oggetto d'arte deve avere la capacità di produrre incontro col reale. Ogni forma, mentre viene percepita, ci in-forma, così l'oggetto rappresentato, per quanto frammentato, geometrizzato, capovolto, raddoppiato, ci chiede di essere guardato, di essere afferrato, com-preso, e ricomposto secondo la visione della "realtà incontrata" dall'artista fuori e dentro di sé (lo dice Wolfgang Vetzger). E dunque, il segreto sta nel ri-guardare le forme, nel senso di avere attenzione per esse e ri-tornare a guardarle; senza uccidere Io sguardo quando guardiamo, senza imprigionarlo, stretti come siamo dai capricci del nostro vorace consumismo, della nostra egotica follia. Cosa vediamo allora quando ci troviamo davanti alle tele di Enzo Migneco,Togo con il suo nome d'arte? (nome de piume così sfuggente e atipico eppure così unico). Vediamo trame inusitate che il lessico "geometrico" dell'artista, addolcito dalla rotondità di colori assoluti, dipana in un "sistema semantico" di cerchi, triangoli, quadrati, angoli, onde, incroci, sagome cristalline, declinati in molteplici combinazioni, le "forme buone" che la natura stessa sceglie per esprimersi.
II libro fondante di Togo è, infatti, la natura, con la quale il dialogo è continuo al punto che in quel territorio sacro e incommensurabile non v'è spazio per la figura umana. La Natura chiama l'artista con dolcezze da sirena, lo esorta a immergersi nella sua essenza primigenia come se egli fosse il primo uomo della terra che si cerca e che trova, col suo sguardo rinnovato, il modo di progredire umanamente: una natura spogliata dalle sovrastrutture culturali, una vertigine nuda e inafferrabile in perenne e sempre uguale metamorfosi, una meraviglia dell'infinito disvelata nel finito, innocente e dunque assolta da ogni "colpa". E la tela, sì, doma lo sguardo.
C'è il mare-ossessione nella mente di Togo e ricordi azzurri e arancio di un pittore che deforma e riplasma, allunga e taglia, arrotonda e tende, ispessisce e assottiglia, percorre con ghirigori e zig-zag abissi di turchino, furie di mare verderame, cieli gonfi di nuvole sanguigne, nebbie azzurrine: un caos dionisiaco pulsante sotto una superficie apollinea di smagliante cromatismo.
E' un pensiero del Sud (forse di qualsiasi Sud del mondo) immaginato e vissuto, percepito o colto in contatto diretto, narrato con una grammatica franta e slegata, eppure straordinariamente coesa, con una "parola" calda, libera ma fedele a se stessa e fortemente plastica, proprio per recuperare, di quel sud-mondo, gli elementi primordiali, come condizioni di un eterno ricominciare.
Così, l'ora meridiana è un tempo-spazio di ardenti epifanie e di infuocati dissolvimenti con i suoi doni di sole e di mare, di luminosi meriggi che si affacciano da balaustre di sole, di immoti cieli pensili su ricordi d'estate. E i giorni seguono alle notti e le albe porporine epifanie metamorfiche. E poi, frane di tramonti e pleniluni sghembi che dal guscio della notte crollano sul mondo bambino; e ancora, arcani silenzi di cieli rovesciati, spume calde e stalattiti di mare, mentre al guizzo della luna attimi di stelle fanno affiorare sagome sinuose di giada e di oro.
E quindi, la tregua marina, con il mare che si fa cuna accogliente e con la bonaccia (pur sempre traditrice) che distende una trapunta turchina e colora di rosa e verde i flutti eoliani. Eppure, nell'idillio affiora il mistero e in questo carnevale di oblio e di memoria, l'apocalisse è in agguato, con i vortici mugghianti dei mostri marini di Scilla e il declinare obliquo del cielo, troppo vicino alla terra.
Allora, su spumeggianti dirupi di mare-oceano incombono cattedrali di fuoco e il mondo è un'arancia rossa tagliata in due, promessa, come per Zarathustra, di "ricchi abissi", di mondi e prede infiniti, ma anche gorgo ululante che ingoia, e culla che accoglie e custodisce. Ma poi il "pensiero meridiano" di Togo, benché conscio che "nessuna onda può pettinare il mare e incanalarsi in saldo sentiero" (così recitano i versi di Dylan Thomas), torna a riconciliarsi con le acque marine per perdersi nella loro furia sottile e illuminare un nuovo giorno di lucori boreali e azzurrare monti e coste di sogni innocenti.
Forse che Morgana abbia fatto i suoi incantesimi? E così di nuovo, ancora, trema la malinconia e si ridesta l'antico silenzio con le sue albe siderali, i suoi relitti di tramonti, con pallori di lune che vegliano sui frantumi del mondo, e la risacca che si frange indolente o rabbiosa con le sue spume sontuose. In quelle piaghe di cieli raddoppiati, nel palpitare tacito di vite ignote (esseri umani, creature marine, del cielo e della terra), tra incanti estivi e notturni rimemorati, dove, tra lo scirocco e il maestrale, il celeste si aggiunge all'azzurro e l'indaco al violetto e al berillo, la pittura si fa silenzio e adorazione. E come la poesia è un luogo di memoria e ripetizione (lo ricorda Giorgio Agamben), così lo è la pittura di Togo, sempre in partenza dal porto della nostalgia per inseguire un luogo-sirena che sfugge, richiama e si allontana di nuovo.
Non vi sono figure umane nelle tele di Togo, ma la vita come la morte, pulsa in ognuna di esse, distillata da gocce di tempo, nella sua inevitabile, creativa ripetizione: l'esistenza di tutti noi pellegrini in perenne cammino, di nomadi e naviganti, di naufraghi gementi, di litigiosi inquilini del Mediterraneo, di creature degli abissi, di fantasmi e di anime, di alberi, frasche e arbusti venerandi.
Cosa vediamo quando guardiamo le tele di Togo? (farlo con lentezza è d'obbligo). Vediamo i nostri sud interiori radicati nella bellezza e nella libertà, nel viaggio e nella patria, nell'abbandono e nella perdita, nel sogno e nelle storie dai tanti colori.
Patrizia Danzè