a cura di Enzo Caruso
Il passaggio delle truppe garibaldine dalla città di Messina viene solitamente menzionato marginalmente nei testi di storia contemporanea: della fase siciliana della spedizione dei “Mille” si pone l’accento sullo sbarco a Marsala, sul proclama di Salemi, sulle battaglie di Calatafimi e Milazzo, sulla presa di Palermo, per poi arrivare al trasferimento delle “camicie rosse” sul continente. Il periodo a cavallo fra il 20 luglio ed il 18 agosto del 1860 rimane, quindi, poco conosciuto, nonostante le vicissitudini in riva allo Stretto abbiano avuto un ruolo determinante per il proseguo della campagna nell’Italia meridionale.
Sicilia: armi, uomini e mezzi nel luglio del 1860.
“[…] Con l’armistizio di Palermo cessa di fatto quella fatidica impresa che è passata alla storia col nome di spedizione dei Mille […]”.
Partiti da Quarto nella notte fra il 5 e 6 maggio del 1860 sui piroscafi “Piemonte” e “Lombardo”, i “Mille”, dopo una sosta di un paio di giorni nel piccolo porto di Talamone, sbarcarono a Marsala l’11 maggio. Raggiunta Salemi il 13, il 15 a Calatafimi si ebbe il primo scontro con le avanguardie napoletane. Il 27 maggio Giuseppe Garibaldi entrò a Palermo. Questi, nelle giornate del 5 e 6 giugno concertò con il generale Lanza il ritiro delle truppe borboniche dal capoluogo siciliano: furono asportate tutte le bocche da fuoco nonché vuotati l’arsenale e i magazzini di deposito. Il movimento si concluse il 19 con la partenza dell’ultimo scaglione, dello stato maggiore e dello stesso comandante duosiciliano sul piroscafo Etna diretto a Castellammare di Stabia.
Ai borbonici rimase il controllo della parte orientale dell’isola. Il generale Tommaso Clary ottenne il comando di tutte le forze concentrate in Sicilia: complessivamente oltre 22.000 uomini, di cui 18.000 a Messina, 2.500 tra Siracusa e Augusta, ed un migliaio a Milazzo, sulla strada costiera che porta a Palermo. Disponeva, inoltre, di 5 batterie di artiglieria con 40 cannoni da campagna e da montagna.
Sul fronte garibaldino, si procedette alla riorganizzazione delle truppe volontarie, costituendo il cosiddetto “Esercito meridionale”: una divisione su due brigate, rispettivamente al comando di Stefano Turr (divisione e 2a brigata) e Nino Bixio (1a brigata). La sua forza iniziale non superava i mille uomini, ma doveva ben presto essere aumentata dai contingenti delle spedizioni guidate da Clemente Corte (900 uomini) e Giacomo Medici (2.500 volontari). Un piccolo rinforzo di 60 uomini e un migliaio di fucili era intanto giunto da Genova agli ordini di Carmelo Agnetta, mentre ulteriori 1.500 fucili arrivarono da Malta. La spedizione agli ordini del colonnello Enrico Cosenza, forte di 1.500 volontari provenienti dalle province lombarde, giunse il 10 luglio successivo.
Si formarono tra il 20 ed il 22 giugno tre colonne, la prima guidata da Medici, destinata ad avviarsi per il litorale, obiettivo Messina, la seconda guidata da Turr, composta dalla 2a brigata Eber della sua divisione, diretta a Misilmeri, Caltanisetta e Catania, la terza, comandata da Bixio e composta della 1a brigata, diretta a Corleone e Girgenti. Tutte, compiuto il loro itinerario dovevano concentrarsi alla punta del Faro.
“[…] La resa di Palermo aveva permesso a Garibaldi di occupare quasi tutta la Sicilia, eccetto Messina e dintorni nell’angolo nord orientale; gli serviva ora un’altra vittoria per consolidarsi e per assicurare un passaggio sicuro al continente […]”.
Il generale Clary mandò verso Barcellona, con l’ordine di appoggiarsi al presidio di Milazzo, tre battaglioni di cacciatori (3.000 soldati scelti), comandati dal colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco. Venuti a contatto con i garibaldini, dopo un vivace combattimento ad Archi il 17 luglio, il comandante borbonico decise di chiudersi in Milazzo. Il 20 Garibaldi attaccò. Disponeva di quasi 5.000 uomini, in gran parte appena giunti e poco addestrati, con 2 vecchi cannoni trovati a Barcellona. Bosco disponeva di quasi 4.000 soldati, con un reparto di cavalleria e 8 cannoni. Dopo una giornata di violenti combattimenti i duosiciliani abbandonarono l’abitato ripararono nel castello. Il 23 venne trattata la resa ed il giorno successivo i napoletani si imbarcarono con l’onore delle armi: “[…] al vincitore restano cannoni e munizioni, cavalli e metà dei muli, mentre a Palermo Lanza è partito con equipaggi, materiali, artiglieria, cavalli, bagagli […]”. La capitolazione delle forze di Milazzo prevedeva infatti che queste sarebbero uscite con le armi e metà dei muli della batteria da montagna, mentre sarebbero rimasti a Garibaldi l’altra metà dei muli, tutti i cavalli, i cannoni e le munizioni. In tutto 36 cannoni, 2 in bronzo e 34 in ferro, 139 cavalli e 83 muli. Pur essendo stato stabilito che i pezzi di artiglieria ceduti non dovessero essere danneggiati, ben 16 risultarono inchiodati. L’inchiodamento, sistema per rendere inutilizzabili le bocche da fuoco d’artiglieria, consisteva nell’inserimento a forza di un chiodo nel focone dell’arma, non permettendo quindi, a chi tentasse di usarla, l’accesso alla camera di lancio. Nel complesso le perdite dei volontari (su circa 4.000 combattenti) furono di 750 uomini fra morti e feriti, mentre i borbonici (sopra una forza totale di 4.500 uomini) ebbero 41 morti (3 ufficiali e 38 soldati) e 91 feriti (8 ufficiali e 83 uomini di truppa).
)Degno di menzione fu il comportamento dei soldati borbonici durante la battaglia. Nel giornale delle operazioni si legge: “I cacciatori e l’artiglieria mostrarono in simile incontro il più pronunziato valore”. Le truppe regie rinchiuse nel castello di Milazzo non si poterono sostenere a lungo, sottolinea Cesare Montù, specialmente per la mancanza di un efficiente armamento artiglieresco. Il Consiglio di Difesa constatava a questo riguardo: “Il calibro delle bocche da fuoco che compongono l’armamento di questo forte non è più in relazione con le esigenze attuali della guerra, la quale ha bisogno di proiettili vuoti, e per contrario qui non trovansi che cannoni di piccolo calibro, potendosi disporre di un obice da 5.6.2, di due obici da 12 centimetri e sette cannoni da 24, coi quali si potrebbero tirare 2851 granate esistenti nel Forte, locchè corrisponderebbe a 24 colpi per ogni pezzo. Gli affusti abbastanza deteriorati dal tempo, la mancanza di Artefici, caprie, cordami, legami ed altri attrezzi indispensabili per la difesa, ci fanno contare poco sulla durata della resistenza che il Consiglio si è proposto”.
“[…] In Milazzo mi sembra di aver un piede in Calabria […]” scrisse in una lettera Garibaldi al Bertani il 25 luglio 1860. Nella stessa data Messina apriva le porte alle avanguardie garibaldine del generale Medici, il 27 successivo le truppe borboniche venivano imbarcate per il continente e il 28 luglio il generale Clary sottoscriveva una convenzione in sei articoli, in virtù della quale rimanevano occupate dai borbonici soltanto la piazza di Siracusa, la cittadella di Augusta e i forti di Messina (Cittadella, Faro, Castellaccio e Gonzaga). Il 1 agosto, una seconda convenzione lasciava libere anche Siracusa e Augusta. Così tutta la Sicilia, meno la Cittadella di Messina, era nelle mani di Garibaldi.
Torre Faro, presidio strategico.
“[…] Giunti allo Stretto, bisognava passarlo […]. Bisognava passarlo, a dispetto della vigilanza somma dei borbonici, e di chi per loro! […]” .
Tra le due sponde, tra il Faro e la Calabria, c’erano appena tre chilometri. E’ presumibile che fin dagli albori della spedizione il condottiero delle camicie rosse pensasse a quel lembo di terra peloritana quale base di partenza per l’attraversamento dello Stretto e non solo. Secondo uno studio dei fratelli Luigi e Carlo Mezzacapo, “[…] il tratto della costa siciliana più prossima alla calabrese, è pure quello dove riesce più agevole sbarcare sorprendendo la vigilanza delle squadre avverse; ed il nemico, occupato che l’abbia, e padrone della costa calabrese, domina la navigazione del Faro ed assicura la comunicazione dall’una all’altra riva […]”. Nei resoconti degli studiosi di fine Ottocento viene evidenziato come la zona prescelta da Garibaldi costituiva al tempo stesso “[…] un agguato, una sfida ed uno zimbello. Un agguato perché nascondeva sempre la doppia opportunità, o di traversare all’improvviso il Canale o di gettarsi al largo per rischiare uno sbarco, sopra un altro punto della costa napoletana; una sfida perché minacciava, come un’opera avanzata, la riva nemica, e, opportunamente armata, poteva ribattere i fuochi de’ suoi forti e delle sue batterie; uno zimbello perché costringeva i regi a tenervi fissi gli occhi ed a perdere di vista, per quel solo tutti gli altri punti […]”. Garibaldi, dunque, appena giunto a Messina rivolse i suoi sforzi alle operazioni per la preparazione dello sbarco sul continente fortificando (batterie costiere) la punta del Faro e costituendo una flottiglia di barche.
“[…] Sin dalla stessa sera del 29 luglio - riporta Gaetano Oliva -, appena diretto a Messina, Garibaldi aveva ordinato che la flottiglia raccolta nel porto di Milazzo movesse riunita per Torre di Faro, trasportando seco i cannoni, le munizioni ed un distaccamento della pirocorvetta Tuckery, allora inutilizzata nel medesimo porto per seri guasti alle macchine. La mattina del 28, la flottiglia giungeva al luogo del destino, e tosto, sotto la direzione del genio militare, tanto i marinai della flottiglia che il distaccamento del Tuckery davansi a costruire due batterie all’estremità nord-ovest della spiaggia. Quelle due batterie vennero ultimate ed armate in pochissimi giorni; indi altre se ne costruirono secondo che se ne rivelava il bisogno. Molte truppe e materiale da guerra, provenienti da Genova e da Palermo venivano disbarcati in quella spiaggia medesima ove tutto alacremente venivasi preparando per la spedizione sopra le Calabrie […]”.
Giuseppe Cesare Abba nelle sue memorie annota alla data del 28 luglio: “[…] Sino a Torre Faro è una deliziosa passeggiata […] In mare, le navi da crociera, che guardano qua dove si lavora di zappa e di badile, a piantare certi cannoni! Riconobbi tra quei ferravecchi la colubrina che portammo da Orbetello. La civettona sta la in batteria, allunga il collo verde fuori della gabbionata, un bel dì farà la rota come una tacchina. Ha una storia essa! Ma se i cannonieri che le fanno la guardia e la lisciano, sapessero le eresie che ci ha fatto dire da Marsala a Piana de’ Greci, la butterebbero in mare […]”. Similare la descrizione di Alexandre Dumas, altro volontario garibaldino, che alla data del 28 luglio scrive:“[…] Arrivati al Faro, fummo colpiti da un bellissimo spettacolo: vedemmo una batteria di tre pezzi di cannone, ed io potei contare centosessantotto imbarcazioni, ognuna delle quali poteva contenere venti uomini […]”.
Dalla lettura delle fonti documentali si evince, dunque, che la punta del Faro divenne un vasto bivacco: fu creato un campo di osservazione e attorno, intanto, furono messe in batteria le bocche da fuoco conquistate al nemico per allontanare i legni da guerra borbonici qualora si fossero troppo avvicinati alla costa.
In conclusione, come evidenziato dallo stesso Cesari, Garibaldi, deciso a passare sul continente napoletano, dispose il concentramento del suo esercito attorno a Messina. La sera dell’8 agosto 1860 la forza stimata oscillava fra i 22 e i 23 mila uomini dislocati in gran parte fra la città e il Faro: più precisamente la divisione Cosenz (16a) a Torre Faro, la divisione Turr (15a) a Pace del Mela e la divisione Medici (17a) nella città dello Stretto. Stabilita come base operativa il piccolo porto del Faro, presso l’estremità settentrionale dello Stretto, vi riunì una flottiglia di barche da pesca ordinando la costruzione di batterie da costa per difenderne l’accesso e proteggere il passaggio delle truppe sulla costa calabra. Sotto la direzione del comandante dell’artiglieria, generale Vincenzo Orsini, si iniziò l’attività presso Torre del Faro e le batterie, complessivamente, furono armate con “[…] 35 bocche da fuoco di vario calibro (12 pezzi da posizione da 24, 6 pezzi da campo, 6 pezzi da montagna e 11 mortai, già appartenenti all’esercito borbonico […]”.
Tattica e strategia: il passaggio sul continente.
“[…] Avventurosamente i Regi avevano abbandonato per sempre il pensiero di riacquistar la Sicilia, e solo miravano ad impedire a Garibaldi il passaggio in Calabria […]”.
Garibaldi, fortemente risoluto a varcare lo Stretto per proseguire la campagna militare sul continente, provvide dunque a fortificare la zona del Faro allestendo una flottiglia di barche per il trasporto delle truppe.
La situazione nel campo avversario non era affatto favorevole. L’esercito borbonico, forte di oltre 80.000 soldati, era pressoché intatto, avendo riportato sul continente le truppe battute in Sicilia; in Calabria ne aveva schierati 17.000, con 32 cannoni, dislocati da Monteleone (oggi Vibo Valentia) a Reggio. In più la guarnigione di quest’ultima e le batterie armate di Altafiumara, Villa S. Giovanni, Punta del Pezzo, Torre Cavallo e Castello di Scilla. La flotta, composta di una decina di navi e distribuita nei porti di Scilla, di Palmi e di Reggio, controllava i movimenti nello Stretto.
Il divario di forze non rappresentava un problema insormontabile per il comandante dell’esercito meridionale, avendo rappresentato una costante per tutta la durata della campagna in Sicilia. Il problema adesso era riuscire a superare lo Stretto. Per tre settimane Garibaldi si trovò al capo Peloro (o capo Faro) a nord-est di Messina, nel punto ove meno di tre chilometri separano l’isola dalla coste calabresi, senz’essere in grado di risolvere il problema. Lo videro spesso aggirarsi pensieroso senza confidarsi con nessuno, neppure coi più fidi; per di più di fronte a quel tratto di costa erano i due piccoli forti di Torre Cavallo e di Altafiumara.
In realtà, come evidenziano le fonti documentali, “[…] era importante tenere il nemico in stato di incertezza […]”. Garibaldi, convinto che uno sbarco in massa di viva forza lungo lo stretto era impossibile, decise di utilizzare, “[…] in sulle prime, il sistema dei colpi di mano, delle sorprese, degli assalti alla spicciolata, mercé i quali afferrare un caposaldo sulla riva opposta e preparare un colpo decisivo […]”.
Il primo tentativo ebbe luogo l’8 agosto. Al comando di Benedetto Musolino, patriota calabrese, 200 uomini circa su una settantina di barche a remi attraversarono il breve tratto di mare sbarcando sulla costa calabra. Avrebbero dovuto formare una testa di ponte, impadronendosi di sorpresa, con la complicità di una parte della guarnigione, del forte di Altafiumara. Così non fu: venne dato l’allarme ed i soldati borbonici si difesero costringendo il commando del Musolino a fuggire sulle montagne dell’Aspromonte. Il grosso, pronto a muovere su tre vapori (circa 2.000 uomini), restò in Sicilia. Il colpo di mano non riuscì. Tre giorni dopo vi fu un nuovo tentativo con il medesimo risultato.
La notevole affluenza di truppe ed i vasti preparativi per il passaggio dello Stretto avrebbero dovuto attrarre l’attenzione del governo di Napoli verso la Calabria. Invece a Napoli si temevano sbarchi sulla costa salernitana e si pensava solo ai pericoli che potevano minacciare la capitale. “[…] A trarre in inganno il nemico e scostare gli ostacoli, Garibaldi faceva giornalmente eseguire da’suoi delle marcie e contromarcie strategiche: e minacciando al tempo medesimo tutto il litorale studiavasi mascherare le proprie intenzioni e nascondere il punto sul quale ideava effettuare l’imbarco. Ciò spiega i numerosi movimenti osservati a’que’giorni nell’armata italiana, come pure gli ordini continui e contr’ordini emanati dal suo Generale […]”. Garibaldi, dunque, avendo chiaro il disegno borbonico, decise di continuare con grande ostentazione gli apparecchi per imbarcare truppe alla punta del Faro, e di gettare invece rapidamente a Melito, a levante del Capo dell’Armi, la divisione Bixio, mantenuta fino allora fra Giardini e Taormina, nelle cui acque si trovavano pronti due vapori il Torino e il Franklin. Nella mattinata del 18 agosto si recò a Messina per poi proseguire alla volta di Giardini. Nel pomeriggio si imbarcò e i due legni, salpati in serata, giunsero il 19 dinanzi a Melito Porto Salvo. Il telegrafo aveva portato ai borbonici la notizia dello sbarco. All’imbrunire i volontari, circa 3.600, si misero in moto. Il generale Gian Battista Vial, comandante in capo borbonico per la Calabria, prevedendo lo sbarco di fronte a Messina, aveva posto il quartier generale a Monteleone, sulla via per Napoli, e aveva lasciata sguarnita la zona a sud di Reggio. La colonna, con la quale si collegò il commando sbarcato l’8, ora guidato da Missori, marciò senza incontrare difficoltà fino a Reggio, capoluogo della Calabria Ultra Prima, difesa da un migliaio di soldati. Attaccata nella notte, la città fu presa all’alba dopo un accanito combattimento, in cui fu ferito Bixio; a sera si arrese il castello, dove si era asserragliata la guarnigione.
Al rumore del combattimento attorno a Reggio, circa 1.200 volontari della divisione Cosenz, grazie ad una flottiglia di barche preventivamente predisposta, si mossero dal Faro sbarcando tra i forti di Scilla e Bagnara. Presi in mezzo dalle truppe acquartierate nelle due fortezze, si addentrarono sulle pendici dell’Aspromonte, dove furono attaccati dai battaglioni del Ruiz, di ritorno dalla caccia a Missori. Riuscirono a sganciarsi dopo un violento combattimento.
Ai garibaldini si arresero i forti di Altafiumara, di Torre Cavallo e di Scilla. La flotta borbonica, minacciata da terra dalle loro artiglierie, abbandonò lo Stretto. La divisione Medici aveva via libera.
“[…] Fu questa spedizione per le Calabrie, riuscita felice ad onta delle molte difficoltà, e non ostante i pochi mezzi che i nostri potevan disporre. Essa fu meravigliosa, e il disbarco di Garibaldi nelle Calabrie è un fatto non meno sorprendente del suo disbarco in Marsala […]”.
Conclusioni
L’impresa dei “Mille”, nel complesso, può ritenersi ”un capolavoro” di Garibaldi che, nell’occasione, dimostrò di possedere altissime qualità di condottiero. Peculiari del suo carattere erano un profondo acume tattico unito ad una grande capacità riflessiva. Nelle azioni militari grande importanza rivestivano gli aspetti legati all’esplorazione, alla sicurezza, alla valutazione del terreno da sfruttare a proprio vantaggio, alla prontezza nelle decisioni al variare improvviso della situazione (esempi di ciò le manovre attorno a Palermo e Milazzo nonché nelle operazioni per l’attraversamento dello Stretto di Messina). In definitiva, dimostrò il fine intuito di riconoscere il “momento decisivo” nel quale bisogna giocare il tutto per tutto per risolvere la battaglia. La storia ci conferma che non ebbe mai la possibilità di comandare grandi masse, avendo sempre fanteria male armata, scarse dotazioni di artiglieria un limitatissimo numero di esploratori a cavallo. “[…] Per necessità e temperamento, - evidenzia Rodolfo Corselli - egli non fece che guerra di movimento e operazioni spiccatamente offensive, supplendo alle sue deficienze di forza e armamento con la continua mobilità e celerità delle mosse, che spesso riuscivano inattese ai nemici […]”.
Tutte le doti sopra evidenziate sono riscontrabili nell’andamento della campagna militare in Sicilia. La battaglia di Milazzo aprì le porte dello Stretto di Messina e nel capoluogo peloritano le truppe stazionarono per ben 22 giorni prima di passare sul continente. Qui la dimostrazione della sapiente strategia garibaldina. Due le domande a cui rispondere: dove costituire la base di partenza e dove sbarcare. Interrogativi di non facile soluzione, considerata la situazione militare duosiciliana sulle coste calabresi. Per il primo risultò felice la scelta della punta del Faro, un vero e proprio ponte di abbordaggio proteso verso la Calabria e da ogni parte veduto, osservato e sorvegliato. Per il secondo, proprio l’attenzione verso ciò che era evidente (movimenti delle truppe e tentativi di sbarco) consentì ai garibaldini di prendere terra in luoghi privi di qualsivoglia controllo.
“[…] Nel 1860, per effetto di avvenimenti e di tempi, il programma Italiano mutava. L’isola dovea seguirne, e ne seguiva, le norme: seguivale non già a traverso una incruenta e pacifica crisi, ma tra le ansietà, le vicende, i pericoli d’una lotta esiziale e terribile […] L’Isola troncava arditamente gl’indugi: operava che i due estremi d’Italia si toccassero e si congiungessero insieme […] dava alla causa Italiana uno impulso repentino e inatteso, un nuovo punto di appoggio a’disegni e agli sforzi della intera nazione […]”. Messina riscopre, così, un’altra porzione del suo glorioso passato. La zona del Faro ebbe un’importanza fondamentale nella strategia garibaldina volta a consentire il passaggio dello Stretto e la prosecuzione delle operazioni militari sul continente: ciò ha permesso di scrivere un’ulteriore importante pagina della storia risorgimentale italiana.