Il pittore è malato. No, il quadro.

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Roma, Ospedale San Camillo, giugno 2006.

Il primario Massimo Martelli chiacchierava con l’anestesista dell’ultimo esame della figlia, la laurea, la macchina nuova.  L’anestesista era serio e concentrato come al solito.  Ogni tanto dava uno sguardo dal vetro della sala operatoria e tornava a parlare con l’oncologo.  Ad un punto apparve l’infermiera, aiutò Martelli a prepararsi e poi entrambi rimasero a fissare l’anestesista. Lui, a sua volta, guardava i due, non più concentrato, ma visibilmente irritato, e confuso.

  • Dottore, dov’è il paziente?
  • Ah. Se n’è accorto.
  • Certo, qui non c’è nessuno.
  • Infatti. Il paziente, è un artista.
  • Embè?
  • È scappato. Oggi operiamo un suo quadro.

Questa ricostruzione di fantasia è la ricostruzione di fatti realmente accaduti.  Nel 2006, l’oncologo Massimo Martelli operò con la sua equipe un quadro del pittore Lorenzo Indrimi, affetto da un carcinoma ai polmoni. Il primario aveva imposto all’artista l’immediata rimozione dei tessuti malati: l’aspettativa di vita del paziente era di sei o al massimo dodici mesi.  Tuttavia, quel giorno, in sala operatoria entrò un quadro che l’artista riteneva l’origine del suo male. La tela fu quindi stesa sul tavolo operatorio, fu tagliata e suturata. Incredibilmente Indrimi guarì e la storia divenne un cortometraggio di Sergio Rubini: Il quadro Malato (2013), prodotto dalla Filarmonica Romana.  L’artista si spense nell’agosto di quell’anno, a sette anni dalla diagnosi del tumore. Questa vicenda romantica e struggente ha alimentato un dibattito piuttosto vivo nella comunità medica della capitale. Frottola, trovata, o possibilità reale di una via artistica per la cura? Si tratta di un campo totalmente aperto. L’uomo è un animale simbolico. La sua vita si fonda sull’assegnazione di valori culturali e psicologici alle persone, alle situazioni e agli oggetti che vive quotidianamente.

La visione dell’organismo biologico come “macchina” autonoma rispetto alla vita degli individui è sconfessata quotidianamente da tutte le ricerche mediche recenti. Non bisogna essere oncologi per capire che vivere bene, in una dimensione di realizzazione individuale fisica e psichica, fa campare meglio e preserva dai malanni. L’arte si occupa anche di questo: della vita e del suo dispiegamento, nel compimento di una ricerca autonoma, secondo il soddisfacimento di pulsioni, la risoluzione di tensioni personali al di fuori degli obblighi e delle costrizioni nocive che ci vengono imposte dall’ambiente.

Mosè Previti