Con quest’articolo dimostrerò attraverso i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio e Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo come gli italiani siano sempre stati un popolo nonostante le differenze municipali e regionali e che l’Unità d’Italia sia qualcosa di importante di cui dobbiamo essere orgogliosi.
Consapevole della frattura esistente in Italia tra la lingua parlata e quella letteraria con i Promessi Sposi (prima edizione del 1827) Manzoni si pose lo scopo di realizzare l’unità linguistica individuando nel fiorentino parlato della gente colta la lingua letteraria italiana per eccellenza, che con l’unità politica si auspicava sarebbe diventata la lingua d’uso comune di tutti gli italiani.
L’autore lombardo esprime con ardente vigore la sua convinzione nella lettera al cavaliere Carena del 1847, che verrà in seguito inserita in apertura alla seconda edizione dei Promessi Sposi (1847), dove avverrà la definitiva risciacquatura in Arno, in cui afferma: «io sono in quella scomunicata, derisa, compatita opinione, che la lingua italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è in Parigi».[1] Affermazione assolutamente condivisibile e che fa sì che la nostra bella lingua sia oggi la quarta lingua più studiata al mondo.[2]
Quando nel 1868, a sette anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, il ministro della pubblica istruzione Broglio nominò una commissione presieduta dallo stesso Manzoni che proponesse i provvedimenti legislativi e amministrativi più idonei “a rendere più universale a tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”[3], si cercò attraverso l’istruzione scolastica di realizzare l’unità linguistica del Paese.
L’operazione linguistica imponente ed encomiabile del Manzoni mi ha portato a chiedermi se nel suo celebre romanzo sia presente l’idea di Italia, se non come nazione in quanto popolo, nelle vicende e nelle espressioni dei personaggi.
Sembra incredibile ma la parola Italia appare per ben venti volte nel romanzo, esattamente quante sono le regioni italiane, e viene espressa come regione geografica dell’impero spagnolo ma anche come lingua e popolo.
Innanzitutto apprendiamo come nei documenti del Cinquecento e del Seicento nei titoli delle varie autorità politiche rappresentanti la corona spagnola si facesse spesso riferimento all’Italia come entità geografica nell’assegnazione delle cariche governative di qualunque genere.
Ad esempio Don Gonzalo Fernandez di Cordova viene indicato come “governatore di Milano e capitano generale in Italia”[4] e la guerra del Monferrato e di Mantova, che viene trattata come una delle cause principali della carestia e della successiva peste dovuta ai saccheggi dei lanzichenecchi imperiali, è analizzata come una guerra italiana all’interno del contesto internazionale della Guerra dei Trent’anni in cui non per niente troviamo il duca di Savoia Carlo Emanuele I che, appoggiando le pretese spagnole di vedere Ferrante Gonzaga alla guida del ducato di Mantova ai danni del protetto dei francesi Carlo Nevers, cercherà di farsi riconoscere il Monferrato, Casale e Pinerolo, ma alla fine della guerra si ritroverà con un Ducato ridimensionato e in brandelli.
Don Gonzalo […] che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia […] aveva concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione e di divisione del Monferrato; e n’aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione del conte duca, facendogli creder molto agevole l’acquisto di Casale, che era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna.[5]
Manzoni si focalizza molto sugli eventi bellici del 1629 per condannare “una guerra nata da assurde contese dinastiche e da questioni di politica internazionale, che tuttavia produce gravi conseguenze sulla vita delle popolazioni umili e ne peggiora la già precaria esistenza”.[6]
Nel romanzo emerge una distanza incolmabile tra le esigenze della popolazione lombarda e quelle dei governanti, che illudono il popolo con vane promesse e in realtà si mostrano indifferenti ai loro bisogni a dimostrazione che il malaffare in politica è esistito in tutte le epoche. In tal senso non sorprende che Renzo creda al pari dei manifestanti milanesi alla promessa del vicegovernatore Antonio Ferrer che avrebbe abbassato il prezzo del pane revocando il calmiere, quando in realtà quest’ultimo aveva soltanto l’intenzione di impedire al vicario di Provvisione di finire linciato dalla folla in quanto ritenuto colpevole della carestia in corso. La credulità e la buonafede di Renzo lo porteranno a farsi portabandiera di Ferrer, allo stesso modo di come oggi ci si batte per un politico piuttosto che per un altro, e il suo discorso, che gli causerà non pochi problemi, è lo stesso che si può sentire nelle piazze e nelle strade di qualunque città italiana:
Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c’è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s’è potuto vedere com’era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia.[7]
La riflessione di Manzoni sulla guerra è condivisibile e ben argomentata. Tuttavia considerando però le numerose riscritture del romanzo, la partecipazione come senatore alla prima seduta del parlamento italiano tenutasi al Palazzo Carignano di Torino il 18 febbraio 1861 e il desiderio espresso nelle poesie politiche (Aprile 1814, Il Proclama di Rimini. Frammento di canzone. Aprile 1815, Marzo 1821) di un Regno d’Italia indipendente – in particolare come afferma in Marzo 1821 “non c’è cor che non batta”[8] per la liberazione dell’Italia dall’oppressione napoleonica – avrebbe potuto spendere qualche parola in più nei Promessi Sposi in favore di Carlo Emanuele I di Savoia.
A mio parere Manzoni non evidenzia completamente come lo scudo e la spada d’Italia[9] sentisse a cuore la libertà dell’Italia dalle potenze straniere.
La conquista del marchesato di Saluzzo ai danni del re di Francia Enrico IV (Trattato di Lione del 1601) va sicuramente letta come un tentativo del Duca di Savoia di legare i destini della dinastia sabauda a quelli del Bel Paese. Nei suoi Ricordi egli dichiara: “È molto meglio avere uno Stato solo, tutto unito, come è questo di qua dai monti, che due, e tutti e due malsicuri”.[10] Inoltre lo storico Francesco Cognasso nel saggio I Savoia riporta la seguente affermazione del Duca “Ho conosciuto il mondo, che ho portato l’armi per conservar la libertà d’Italia ed ho saputo deporle quando mi è parso di aver conseguito questo fine”.[11]
Un fine che per Carlo Emanuele a quell’epoca era molto confuso e geograficamente circoscritto ai territori dell’Italia settentrionale, che lui riteneva gli spettassero di diritto, ma che poi nel Risorgimento si trasformerà nell’adesione di Vittorio Emanuele II alla causa unitaria portata avanti dai patrioti italiani.
Nei Promessi Sposi non è da trascurare il riferimento da parte di Manzoni all’importanza dei libri seicenteschi scritti in lingua italiana e alle biblioteche che li possiedono. A tal proposito ampio spazio viene dato al dotto e caritatevole cardinale Federigo Borromeo, personaggio storico realmente esisto che svolge un ruolo positivo e propulsivo all’interno del romanzo, che ha scritto circa cento opere “tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata”[12] e istituì “un collegio trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana”[13], che oggi definiremmo liceo classico.
In riferimento ai dialoghi del romanzo in cui viene invocata l’Italia non possiamo non ricordare la celebre esclamazione di Don Rodrigo, che al cugino conte Attilio dichiara in riferimento all’atteggiamento clemente da lui tenuto nei confronti di Padre Cristoforo: “Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?”[14]; e il monologo interiore di don Abbondio mentre attraversa la valle con l’innominato convertito e di cui ancora il prete codardo non riesce a persuadersi della sincera conversione e teme che possa aggredirlo con i suoi scagnozzi: “Quella valle famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: que’famosi uomini, il fiore della braveria d’Italia”.[15] Questi dialoghi ci fanno comprendere come il senso di appartenenza al popolo italiano era avvertito già nel Seicento, tanto nei dialoghi quanto nei pensieri, dalle persone di tutte le classi sociali.
Il piemontese Massimo d’Azeglio, genero di Manzoni, nel romanzo Ettore Fieramosca (1833) porterà avanti con vigore quest’idea inserendola in un fatto storico risorgimentale realmente accaduto, la disfida di Barletta del 1503, descritta tra l’altro da Guicciardini nella Storia d’Italia, in cui nel pieno delle guerre d’Italia emerse l’orgoglio e il senso di appartenenza degli italiani.
Ammiratore dell’Orlando Furioso e del Rinascimento italiano, Massimo d’Azeglio abbandonerà da adolescente la carriera nella cavalleria sabauda per proseguire la sua vocazione di pittore. Nella sua vita percorrerà l’Italia in lungo e in largo, arrivando fino in Sicilia, per rappresentare nei suoi quadri la varietà del paesaggio italiano e celebrare al meglio i fatti storici (La disfida di Barletta, 1829; La battaglia di Legnano, 1831) e le opere letterarie (Combattimento di Rinaldo e Gradasso, 1839) in cui è emerso lo spirito del popolo italiano.
Tanto nella pittura quanto nella scrittura d’Azeglio cercò di cogliere l’universale degli italiani abbinandolo al sentimento della natura proprio dei romantici. La passione per la scrittura si intrecciava e rinvigoriva con la pittura con esiti a dir poco strepitosi e Ettore Fieramosca con i suoi personaggi ben tratteggiati, che sembra di vederli sul campo di battaglia, ne è la controprova. Con questo romanzo lo scrittore piemontese è riuscito pienamente a dar corpo alla sua idea di romanzo storico come genere letterario capace di suscitare l’orgoglio di essere italiani e il rispetto reciproco tra le nazioni.
D’Azeglio va ancora oltre estendendo la cittadinanza italiana anche agli animali, come si evince ad esempio dal dialogo che il protagonista intrattiene con il cavallo Airone:
—Povero Airone mio, mangia, e fa buona cera fin che puoi, che non sei sicuro di dormir domani sera su questa lettiera… A tutt’altro fatto condurrei Boccanera, e non arrischierei la tua pelle; ma domani ho proprio bisogno di averti sotto, che non mi metterai un piede in fallo, son certo. E poi, — seguitò sorridendo e prendendogli il muso fra le mani. — sei italiano anche tu, anche tu devi portar la croce. —[16]
Nel romanzo i Savoia non vengono mai esplicitamente citati, ma a mio parere il mantello azzurro cucito da Ginevra e indossato dal protagonista, oltre che essere un esplicito omaggio alla Madonna, rinvia ai colori della casa sabauda.
La trama di Ettore Fieramosca ruota attorno a una sfida lanciata agli italiani dal cavaliere francese Guy de la Motte (la Motta nell’edizione del romanzo da me posseduta), secondo cui gli italiani mancano di coraggio e risolvono i problemi con cospirazioni segrete e avvelenamenti, e che vuole verificare di che pasta sia fatto il cavaliere capuano Ettore Fieramosca, combattente sotto il vessillo di Prospero Colonna, che a sua volta si è schierato nelle guerre d’Italia con gli Aragonesi spagnoli e contro lo Stato Pontificio guidato da Alessandro VI, il figlio Cesare Borgia detto il Valentino e i Valois francesi. Gli spagnoli non ci stanno a vedere gli amici italiani vituperati dai boriosi francesi e sperano che Fieramosca voglia accettare la sfida. Il protagonista non si tirerà indietro e riuscirà a formare una squadra di 13 cavalieri coraggiosi disposti a suonarle di santa ragione a una squadra di altrettanti francesi in un torneo cavalleresco in cui si dimostrerà chi avrà ragione. Tredici combattenti per squadra furono scelti dai francesi, in quanto “numero tenuto infausto e scelto a presagir malanni agl’Italiani”[17]. Nella formazione francese, oltre al celebre de la Motte, rintracciamo Grajano d’Asti, il traditore italiano alleato di Cesare Borgia odiato da Ettore Fieramosca in quanto marito di Ginevra, la donna di cui il protagonista è innamorato fin dalla gioventù e che spera un giorno di poter sposare.
Senza entrare troppo nel dettaglio di questa storia d’amore picaresca, vorrei però mettere in evidenza il passaggio del romanzo in cui si fa riferimento a Messina. Mentre Fieramosca e Brancaleone si dirigono verso il campo francese Ettore racconta che lui e Ginevra, credendo Grajano d’Asti morto, e in fuga da Cesare Borgia, che si era invaghito della bella capuana a cui aveva somministrato del vino medicato nella speranza di poterla possedere, decidono di trascorrere due anni a Messina dove lei si ritira in un monastero non specificato di cui l’autore purtroppo non offre alcuna notizia.
Il reame era tuttora in mano de’ Francesi; ed essendo loro amico il Valentino, non mi pareva esserne sicuro finché non mi trovavo mille miglia lontano da loro. […] e come a Dio piacque ci trovammo una sera a salvamento in Messina; e ringraziai di tutto cuore Iddio di averci tratti da tanti pericoli. […] Ma per conchiudere; passammo circa due anni in codesta città. Ginevra si ritirò in un monastero, ed io, che m’ero dato per suo fratello, la visitavo più sovente che potevo.[18]
Non ci deve sorprendere che Messina appaia nel romanzo di d’Azeglio, poiché la squadra messa a punto da Ettore Fieramosca vede cavalieri italiani provenienti dalle Alpi alla Sicilia: Ettore Fieramosca da Capua, Romanello da Forlì, i romani Ettore Giovenale, Brancaleone e Giovanni Capoccio, il napoletano Marco Carellario, i siciliani Guglielmo Albimonte e Francesco Salamone, il pugliese Miale da Troja, Riccio da Parma, Fanfulla da Lodi, Ludovico Aminale da Terni e Mariano da Sarni.
Nel giorno della sfida Prospero Colonna incita i cavalieri con un discorso patriottico a dimostrare ai francesi il valore degli italiani:
Signori! Non crediate ch’io voglia dirvi parola per eccitarvi a combatter da uomini pari vostri: vedo fra voi Lombardi, Napoletani, Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d’Italia ugualmente? Non sarà ugualmente diviso fra noi l’onore della vittoria? Non siete voi a fronte di stranieri che gridan gl’Italiani codardi? Una cosa sola vi dico: vedete là quel traditor scellerato, Grajano d’Asti. Egli combatte per mantener l’infamia sul capo de’ suoi compagni!…m’intendete… Ch’egli non esca vivo da questo campo.[19]
La sfida tra italiani e francesi viene vissuta dai partecipanti e dagli spettatori con partecipazione. Spesso si sente gridare Viva Italia e a bordocampo l’oste Veleno prepara cibo di strada, come carciofi e acciughe, allo stesso modo di come oggi troviamo venditori ambulanti nelle vicinanze degli stadi e dei palazzetti dello sport.
Il combattimento durò a lungo perché i francesi pur di non riconoscere il valore degli italiani combatterono fino allo stremo delle forze. Tra di loro va però elogiato il comportamento di Giraud de Forses che, vedendosi resa la spada da Ettore Fieramosca, apprezzerà a tal punto la cortesia dell’italiano, che deciderà di arrendersi e farsi prigioniero e, a loro volta gli italiani, ammirati da un simile gesto, gli permetteranno di rientrare in campo senza pagare il riscatto di cento scudi così come previsto dal regolamento.
Alla fine i francesi perderanno e l’unico morto della sfida sarà proprio il traditore Grajano d’Asti, ucciso da Brancaleone con l’azza, e per lui, nonostante la richiesta di Ettore Fieramosca di dargli onesta sepoltura in quanto pur sempre cavaliere italiano, non ci sarà la possibilità di essere seppellito nel sagrato della cattedrale di Barletta e, in seguito alla vivida protesta popolare, verrà sepolto lontano dalla città, in un luogo che da lui prende il nome di Passo del traditore.
Bellissimo il discorso conclusivo di Prospero Colonna che invita al rispetto reciproco dei popoli e i francesi a non essere boriosi e millantatori:
Non sarà mai ch’io voglia insultare alla mala fortuna d’uomini valorosi: l’arme son giornaliere, e chi è vinto oggi può vincer domani. Non vi dirò di rispettar d’or innanzi il valore italiano: dopo simili fatti le mie parole sarebbero superflue. Vi dirò bensì che impariate d’or innanzi ad onorare il valore e l’ardire ovunque si trova; ricordandovi, che Dio l’ha distribuito fra gli uomini, e non l’ha accordato come un privilegio alla vostra nazione: e che il vero coraggio è ornato dalla modestia, e vituperato dalla millanteria.[20]
Come politico d’Azeglio è noto per il motto “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. In realtà bisogna riconoscere il ruolo attivo ricoperto dallo scrittore nella realizzazione dell’Unità d’Italia. Consapevole delle diversità di costumi, mentalità e tradizioni politiche presenti nella penisola, Massimo d’Azeglio era sul piano ideologico per una confederazione di Stati italiani sul modello tedesco. Non stravedeva per la dinastia sabauda, ma tra gli anni 30’ e 40’ dell’Ottocento dipinse per commissione di Carlo Alberto e del primo re d’Italia Vittorio Emanuele II una serie di quadri inneggianti la gloria dei Savoia come dinastia capace di realizzare l’indipendenza e la libertà d’Italia e l’unica in grado di promettere il riscatto degli italiani in quanto popolo. Tra questi soggetti non possiamo non ricordare il quadro Lo sbarco di re Vittorio Amedeo II in Sicilia presso Taormina (1857), che ci ricorda come i Savoia, grazie alla pace di Utrecht, divennero re regnando in Sicilia dal 1713 al 1720, per poi cederla a Carlo VI d’Asburgo e divenire re di Sardegna, a causa dell’infausto esito della guerra della Quadruplice Alleanza.
La piega degli eventi dei moti del ‘48 spingerà d’Azeglio a convincersi che soltanto con i Savoia è possibile l’Unità d’Italia e che la repubblica propugnata dai mazziniani, per quanto questi fossero mossi da buone intenzioni, era irrealizzabile in quanto non si sarebbe riusciti a realizzare un fronte comune capace di ottenere il consenso delle potenze straniere e dell’opinione pubblica internazionale. È così che possiamo spiegare la sua partecipazione alla Prima Guerra d’Indipendenza, in cui combatté con coraggio finché non fu ferito al ginocchio destro nella battaglia sui Monti Berici, nei pressi di Vicenza. Dopo la sconfitta di Novara del 1849 e alla salita al trono di Vittorio Emanuele II, d’Azeglio ricoprì per due volte consecutive la carica di Primo Ministro del Regno di Sardegna (dal 1849 al 1852) cercando di creare i presupposti internazionali per l’Unità d’Italia. La pace firmata con l’impero asburgico, la stesura del proclama di Moncalieri, il mantenimento dello Statuto Albertino, l’abolizione dei privilegi ecclesiastici con la legge Siccardi, la legge sul matrimonio civile e la repressione dei movimenti repubblicani faranno sì che d’Azeglio, pittore e scrittore stimato e noto anche all’estero, riuscisse a presentare la possibilità e la fattibilità di una monarchia costituzionale italiana sotto la guida dei Savoia agli occhi delle potenze straniere.
D’Azeglio è la dimostrazione come nella vita, volenti o non volenti, si possa scendere a patti con le nostre idee per realizzare il bene comune. Disgraziatamente nel realizzare l’Unità d’Italia si è trovato nella necessità di doversi scagliare con tutte le sue forze verso i repubblicani, che non volevano guardare in faccia la realtà. La sconfitta della repubblica romana del 1848 dimostra proprio come in Italia purtroppo non ci fossero le condizioni politiche per una repubblica democratica.
Fatto fuori da Cavour, Massimo d’Azeglio collaborerà con il Conte portando avanti un intenso lavoro diplomatico con l’Impero francese di Napoleone III e la monarchia britannica della regina Vittoria per far comprendere al mondo che gli italiani non sono affatto “immondi Paria dell’incivilimento moderno”.[21]
Quest’idea della necessità del riconoscimento della nazione italiana verrà portata avanti dal grande scrittore garibaldino e repubblicano mazziniano Ippolito Nievo. Da giovane studente liceale il padovano Nievo aderirà ai moti repubblicani di Mantova contro l’impero asburgico del 1848 e in seguito si unirà a Garibaldi partecipando alla Seconda Guerra d’Indipendenza come cacciatore delle Alpi e, dopo la delusione della pace di Villafranca del 1859, proseguirà l’avventura garibaldina partecipando alla spedizione dei Mille col numero 690. Fin da subito l’immenso eroe Garibaldi notò l’intelligenza e il genio assoluto e ineguagliabile del giovane Nievo, nominandolo intendente di Prima Classe e in seguito Tesoriere della Sicilia. Sfortunatamente Nievo trovò la morte nel naufragio del vaporetto Ercole il 5 marzo 1861, a qualche settimana dalla proclamazione del Regno d’Italia, portando con sé nella tomba, oltre ai documenti economico-amministrativi della spedizione dei Mille, anche il suo genio che tanto ancora avrebbe potuto dare alla letteratura e alla politica italiana.
Vorace scrittore e lettore – nel suo capolavoro Le confessioni di un italiano troviamo perfino citato Edgar Allan Poe – in poco meno di trent’anni sperimentò i più svariati generi letterari: poesia, teatro, racconto e romanzo. Tra i suoi romanzi vi è anche il fantascientifico La storia filosofica dei secoli futuri, in cui immagina il futuro dell’Italia dal 1860 al 2222.
In Le confessioni di un italiano Nievo racconta la nascita e lo sviluppo del sentimento patriottico italiano attraverso le parole del protagonista Carlo Altoviti, detto Carlino, che nato veneziano nel 1875 giunge nel 1858 all’età di ottant’anni a sentirsi italiano e, dal momento che la vita lo sta per abbandonare, spera vivamente che a breve possa realizzarsi l’Unità d’Italia:
Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo.[22]
Nel romanzo Carlino si trova a vivere una serie di fatti storici e di finzione che segnano il passaggio dal dispotismo illuminato ai sistemi politici costituzionali e liberali: le contese territoriali tra i Fratta e i Venchieredo per il controllo dei territori friulani, la crisi della Repubblica di Venezia in cui ricoprirà per breve tempo la carica di patrizio fino all’arrivo di Napoleone; l’incontro con il futuro imperatore a Milano, la partecipazione alle rivoluzioni che porteranno dapprima alla Repubblica Cisalpina e poi al Regno d’Italia di Napoleone; la lotta in prima linea contro quegli insulsi di Borbone a Roma in difesa della repubblica romana del 1798; la ripresa della battaglia per la liberazione del Regno di Napoli insieme a siciliani, napoletani e abruzzesi; la nomina a intendente di Finanza di Bologna; la prigionia, la cecità e l’esilio a Londra dopo la sconfitta dei moti napoletani del 1821; la partecipazione dei figli alla guerra d’indipendenza greca; la morte di un figlio nei moti romagnoli del 1848 e il ricredersi del valore dell’altro, lo scapestrato Giulio, che farà ricredere il padre seguendo Garibaldi nella difesa della repubblica romana e combattendo successivamente per l’indipendenza degli Stati Sudamericani, fino a intravedere con lungimiranza l’effettiva possibilità di un’Italia Unita alla vigilia della Seconda Guerra d’Indipendenza.
Grazie a Ippolito Nievo noi scopriamo la varietà degli ordinamenti giuridici dell’epoca. Ad esempio, prima dello scoppio della rivoluzione francese un giudice friulano per applicare la legge doveva districarsi tra Statuti Friulani, Codici della Repubblica di Venezia, leggi feudali e consuetudini per riuscire a diramare una controversia penale o civile. In pratica c’era da uscire fuori di testa.
Inoltre l’autore padovano ci fa notare come il protagonista attraverso l’adesione alle rivoluzioni e alle lotte per la libertà si renda conto come dalle Alpi alla Sicilia siamo tutti italiani seppur con dialetti, costumi e mentalità diverse. Anzi queste diversità tra gli italiani non può che essere una ricchezza per tutta la nazione.
Per tal motivo non deve sorprendere che durante la rivoluzione romana di fine Settecento Carlino risponda a Carafa che per la patria sarebbe disposto a dare “non una ma cento vite”.[23]
Da non trascurare l’importanza assegnata alla letteratura italiana da Nievo nella formazione dello spirito patriottico. Troviamo spesso citati da Carlino autori come Dante, Machiavelli, Tasso, Ariosto, Alfieri, Foscolo e i contemporanei Silvio Pellico e Manzoni.
Addirittura Carlino Altoviti fa la conoscenza diretta di Ugo Foscolo negli anni dell’occupazione napoleonica di Venezia che, seppur personaggio comprimario nelle vicende romanzesche, viene menzionato diverse volte dal protagonista.
Ad esempio c’è un passo del romanzo in cui Carlino si trova a Milano in cerca di lavoro e, avendo difficoltà a trovare qualcosa da mangiare, dichiara: “sarei morto di fame piuttosto che farmi pagare un caffè e panna da Ugo Foscolo”.[24]
In Le confessioni di un italiano troviamo una varietà di personaggi ben costruiti, ma senza dubbio il personaggio più bello di tutti che racchiude la varietà degli italiani è la Pisana.
Figlia dei conti di Fratta e cugina di Carlino, la Pisana è espressione della donna libera, intelligente e indipendente che ha diritto alla felicità, a essere sé stessa e a realizzarsi nella vita.
Cresciuto nel castello della cugina, Carlino si innamorerà fin da subito della Pisana e con pazienza sopporterà i suoi capricci da ragazzina altolocata. In seguito imparerà ad amarla per la donna che è e, mentre tutti gli spasimanti finiscono per desistere al carattere volubile della bella contessina o ne vengono schiacciati, Carlino sarà sempre lì costante nel suo amore e a concedersi quando la corrente tira a favore. L’amore tra i due sarà contrassegnato da sacrifici e rinunce, i momenti di passione folgorante si alternano alla freddezza, ma alla fine i due impareranno a incontrarsi, rispettarsi e a prendersi cura l’uno dell’altra nei momenti di bisogno e quando meno ce lo si aspetta. Sposata con un vecchio patrizio veneziano che non ama, la Pisana stringerà amicizia con Aquilina e inviterà Carlino a sposarla per dare vita ai nuovi patrioti che lotteranno per la libertà e l’indipendenza dell’Italia. Col tempo Carlino amerà la moglie, ma l’amore reciproco che la Pisana e il protagonista provano l’uno per l’altro alla fine verrà sancito nell’esilio di Londra, città nota per il “gran turbine soffocante e affaccendato”[25] e il cui clima regala “un noioso mal di petto”.[26] Qui la Pisana per fornire le migliori cure al cieco Carlino andrà a chiedere l’elemosina rovinandosi la salute e, quando l’amico dottore Lucilio opererà il protagonista alla cataratta facendogli recuperare la vista, a quel punto, la contessina, dopo aver utilizzato per un’intera vita il fascino e l’intelligenza da lei possedute a servizio della libertà dell’Italia, andrà incontro a una morte che con le sue memorie Carlino non renderà affatto vana.
A mio parere la definizione più esatta della Pisana viene data nel romanzo da Ettore Carafa che, soffrendo per il modo altalenante in cui viene amato da lei, dichiara che la contessina veneziana ama alla maniera “dei datteri, che fanno all’amore l’uno in Sicilia e l’altro in Barberia”.[27]
Come personaggio la Pisana mi ha ricordato molto Virginia Oldoini contessa di Castiglione, una delle donne più belle del Risorgimento, che, per realizzare l’Unità d’Italia a cui era disposta a tutto, è stata assoldata come spia dal conte di Cavour per conquistare il cuore di Napoleone III e persuaderlo a firmare i patti di Plombières, che posero le basi per la Seconda Guerra d’Indipendenza.
Poliglotta, intelligente, brillante, ambiziosa e anche un po’ mitomane – allo stesso modo della Pisana – la contessa di Castiglione riuscì a “catturare l’attenzione di Napoleone e a fare parlare di sé il mondo parigino”[28] riuscendo a costruire attorno alla sua figura “una leggenda inseparabile dalla storia del Risorgimento”.[29]
A centosessanta anni dall’Unità d’Italia è giunta l’ora che neoborbonici e indipendentisti siciliani la smettano di gettare discredito sul Risorgimento italiano e sui Mille di Garibaldi, perché se oggi finalmente l’Italia è repubblicana ed europeista lo dobbiamo al fatto che questi patrioti si batterono, in ragione della realpolitik, per la soluzione più fattibile in quel momento in grado di permettere agli italiani di essere liberi, uniti e indipendenti dalla tirannia delle potenze straniere.
Inoltre il Qui si fa l’Italia di Garibaldi è molto più di un semplice motto, ma è una sorta di legge morale che ci permette di avere, come afferma De Gregori in Viva L’Italia, quell’Italia libera e repubblicana “che non muore […] e che resiste” nonostante il Covid, le difficoltà economiche e il populismo.
Roberto Cavallaro
[1] Alessandro Manzoni, Sulla lingua italiana. Lettera al signor cavaliere consigliere Giacinto Carena, 1847, http://www.alessandromanzoni.org/opere/9
[2] https://www.ilsole24ore.com/art/l-italiano-supera-francese-e-diventa-quarta-lingua-piu-studiata-mondo-ABajojXB?refresh_ce=1
[3] https://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-manzoni/
[4] Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Redaelli, Milano, gennaio 1865, e-book, Google Books, settembre 2007, p. 419.
[6] https://promessisposi.weebly.com/guerra-di-mantova.html
[8] http://www.alessandromanzoni.org/opere/27
[9] uno dei tanti soprannomi a lui affibbiato e di cui ricordiamo anche gobbo e con cui oggi indichiamo gli juventini.
[10]Ercole Ricotti, Storia della monarchia piemontese, vol. III, Firenze, 1865, p. 426.
[11] Francesco Cognasso, I Savoia, Corbaccio, Milano, 1999 p. 385
[12] Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, op. cit., p. 348.
[14] Ivi, p. 176
[15] Ivi, p. 365.
[16] Massimo d’Azeglio, Ettore Fieramosca, Barion Editore, Sesto San Giovanni (Mi), 1942 p. 275
[17] Ivi, p. 110
[19] Ivi, pp. 288-289.
[20] Ivi, p. 304.
[21] Eugenio Camerini, Nuovi profili letterari, vol. II, N. Batezzati e B. Saldini coeditori, Milano, 1875, in Ettore Fieramosca, op. cit. p. 13
[22] Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano, Einaudi, Torino, 1964, edizione e-book, e-text.it, febbraio 2020, p.9
[23] Ivi, p. 967.
[24] Ivi, p. 1148.
[25] Ivi, p. 1261.
[26] Ivi, p. 1384.
[27] Ivi, p. 998.
[28] Benedetta Craveri, Castiglione La Contessa e l’Imperatore, in Robinson, la Repubblica, Roma, Sabato 13 marzo 2021, p. 9.
[29] Ibidem.